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Leone D’oro al Festival del Cinema di Venezia, quest’opera segna il debutto cinematografico del regista di Zavraž’e dopo i due mediometraggi “Non ci sarà licenza oggi” (1959) e “Il rullo compressore e il violino” (1961). Un’opera prima che estasiò le platee occidentali grazie ad un’intima vena elegiaca alternata ad un originale taglio registico volto a mettere a nudo la miserabile realtà della guerra. Tutto questo nonostante il film fosse una produzione Mosfil’m, lo studio cinematografico moscovita devoto al PCUS, e quindi a forte rischio propagandistico. E in effetti il progetto ne aveva tutte le premesse: basato sul racconto “Ivan” di Vladimir Bogomolov, sembrava costruito per celebrare le gesta di un ragazzino che durante l’invasione nazifascista della Russia conduceva pericolose missioni di ricognizione dietro le linee nemiche. Tarkovsky fu chiamato a dirigere il film a produzione in corso, sostituendo Eduard Abalov alla regia. Il regista, al suo primo lungometraggio, compì un lavoro straordinario conferendo all’opera un tono intimistico, onirico e crepuscolare, sfrondandola da ogni orpello propagandistico e di fatto rivelando al mondo intero il suo sconfinato talento.

Sul finire del 1941 l’esercito nazifascista è giunto, nella sua invasione della sterminata Russia di Stalin, al fiume Dnepr. Sulla sponda opposta è attestata l’avanguardia dell’Armata Rossa con il compito di contrastare l’avanzata delle truppe di Hitler. Nella notte una figura minuta si muove nei pressi del grande fiume:si tratta di Ivan, un ragazzo di appena 12 anni con compiti di ricognizione tra le linee nemiche. Durante la sua ultima missione non riesce a raggiungere il punto d’incontro stabilito e approda in un punto controllato dal tenente Galtsev che non conoscendolo avverte, su richiesta del ragazzo, i suoi superiori. Il tenente scopre così che Ivan è una sorta di piccolo soldato al servizio dell’Armata Rossa paternamente amato dai soldati Kholin e Katasonov e dal Colonnello Gryaznov che lo vorrebbe allontanare dal fronte e adottare. Ivan è rimasto solo nella catastrofe bellica, il padre ucciso al fronte e la madre trucidata durante i rastrellamenti dei tedeschi, o forse sotto un bombardamento, non è dato saperlo. Il ragazzo vive sospeso tra realtà e sogno con visioni elegiache dell’infanzia felice, fatta di giochi, di luce, di sorrisi materni e di corse sulla spiaggia. La luce dei dolci sogni di Ivan è spezzata e dissolta dalle tenebre della Guerra. Il presente è intessuto di ombra e lugubre natura che sembra ghermire il ragazzo e strapparlo alla sua infanzia per gettarlo in un agone feroce di uomini e armi. Ivan, d’accordo con Galtsev e Kholin, si proporrà per un’ultima missione e i due soldati lo conducono in barca sull’altra sponda del Dnepr, tra pattuglie di soldati tedeschi e sibili di pallottole. Sarà l’ultima volta che i due vedranno il ragazzo. Più tardi un consumato Galtsev, nel Reichstag di una Berlino conquistata dall’Armata Russa, troverà, tra i fascicoli dei prigionieri giustiziati, l’immagine angelica di Ivan unita alla sua sorte: impiccato.

I paramenti iconografici con cui Tarkovsky veste questa sua opera prima sono incantevoli: lenti piani sequenza dove ruderi e tizzoni arborei vestono la scena, ombre sfuggenti, lamenti in lontananza, il tutto narrato in un bianco e nero rarefatto e inquietante. Il film divenne celebre anche per la scena del bacio “sospeso” tra il soldato Kholin e l’infermiera Masha. I due si addentrano in un bosco di bianche betulle che si stagliano contro l’orizzonte e invadono ogni punto cardinale. Dopo un giocoso colloquio Kholin tende la mano a Masha per farle superare un fosso, e tenendola sospesa nel vuoto, la bacia improvvisamente. Una scena di una bellezza folgorante, perfetta nella sua purezza lirica e nella sua simmetria iconografica. L’Infanzia di Ivan è un’opera con cui Tarkovsky prese congedo con malcelato disprezzo dal cinema propagandistico della guerra fredda che i suoi concittadini si affannavano a produrre. Un film a causa di cui fu aspramente criticato in patria, persino da Kruscev in persona che gli contestò un’eccessiva occidentalizzazione dello stile e un degrado dei valori della Resistenza Russa. Ma l’opera volava ben più in alto della mera politica e rimane ad oggi sfolgorante testimonianza dell’immenso genio visivo e lirico di un artista al di sopra di ogni vincolo estetico: Andrei Tarkovsky.

Titolo Originale: Ivanovo detstvo

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