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Forse uno dei più bei film a tema carcerario mai girati, quest’opera di Bresson incanta per minimalismo, essenzialità, scarnificazione iconografica. Bresson trasfonde in questo film ogni stilla della sua filosofia cinematografica, ossia la disintegrazione dei cardini su cui ogni opera cinematografica veniva a quel tempo edificata: recitazione, montaggio e colonna sonora. Bresson porta avanti un cinema antropocentrico, dove l’uomo è al centro della scena e dove ogni orpello, ogni artificio dev’essere ridotto all’essenziale per mantenere un focus ossessivo sul personaggio in scena. La recitazione diviene quanto di più lontano possa esserci dall’enfasi, i dialoghi sono quasi monosillabici, la colonna sonora è affidata al ruolo di sommesso commento alle immagini con le potenti musiche di Mozart, nulla di più che una suggestione sussurrata, il montaggio non è che altro che una didascalica scansione cronologica della narrazione. Un cinema potente e verista che non manca di affascinare, poichè instaura un patto solenne tra regista e spettatore: la promessa della Verità denudata da ogni finzione. Tratto da un racconto autobiografico di André Devigny, partigiano della resistenza francese catturato ed evaso dal carcere di Parigi, Un Condannato fu accolto trionfalmente dalla critica con l’assegnazione della Palma d’Oro a Cannes.

Fontaine è un membro della resistenza francese catturato dopo aver tentato di eseguire un attentato. L’uomo viene tradotto in prigione dove, durante l’interrogatorio, viene brutalmente malmenato dalla Gestapo prima di essere rinchiuso in cella. Lo spazio angusto e il senso di oppressione esercitano un forte senso di abbattimento su Fontaine che tuttavia riesce presto ad allontanare grazie al pensiero di come evadere da quel luogo al più presto. Il microcosmo carcerario è fatto di gesti ripetuti, di sussurri e gesti d’intesa lontani dagli sguardi delle guardie, di vite che incrociano i propri destini attraverso il tritacarne della Storia. Fontaine stringe amicizia con altri detenuti prima di vedere alcuni di loro ferocemente abbattuti dalla giustizia sommaria dell’invasore. Accortosi che la porta di legno della propria cella può cedere l’uomo si adopera giorno dopo giorno, con l’ausilio di un cucchiaio, a scavarne i pannelli centrali per poterne ricavare un’apertura. Fabbrica anche delle corde e dei ganci utilizzando materiale di fortuna che recupera nella sua cella. Quando tutto è pronto per l’evasione gli viene affidato un giovane compagno di cella, apparentemente un disertore dell’esercito francese collaborazionista. Fontaine, prossimo ormai alla fucilazione, deve decidere al più presto se fidarsi del ragazzo per portare a termine il suo proposito di libertà.

Un film che entra nell’immaginario con la micidiale precisione di una lama acuminata. Alcune scene rimangono indelebili nella memoria come l’uccisione della guardia dopo la discesa dal primo muro di cinta. Fontaine attende dietro ad un riparo il momento propizio per attaccare il soldato tedesco, al contempo ne condivide il respiro, il suono annoiato dei passi, il fumo di una sigaretta. Fuggitivo e Secondino si fondono l’uno nell’altro e Bresson indugia con l’inquadratura su questa sospensione temporale, come se ogni evento si cristallizzasse in quell’attimo. Poi Fontaine scatta e l’inquadratura rimane fissa sul muro dove se ne stava rintanato mentre fuori campo uccide il soldato di guardia. Solo un occhio sensibile e geniale come quello di Bresson poteva concepire una scena così bella e feroce, dove la violenza rimane in potenza, e non viene mai alla luce, ma dove due uomini, di opposte fazioni, sono per un breve istante avvinti nel silenzio della notte.

Titolo Originale: Un condamné à mort s’est échappé ou Le vent souffle où il veut

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