Babylon, o la germinazione della Settima Arte
Damien Chazelle ci conduce là dove tutto è cominciato, ovvero nella Hollywood degli anni ’20, il Sancta Sanctorum della Settima Arte, il fecondo embrione ove tutto ha avuto inizio. Questa sua quarta prova registica è forse la più sofferta, certamente la più impegnativa dal punto di vista produttivo, registico ed umano. Come già Spielberg e Tarantino anche Chazelle affronta il suo amore per il cinema declinandolo atraverso una sensibilità filologica, ovvero andandone a verificarne direttamente la scaturigine.
Babylon si presenta immediatamente come un film sontuoso e sottilmente narcisistico. Tutto è clamorosamente urlato in macchina da presa, ogni cosa è amplificata e riverberata attraverso personaggi che popolavano un mondo sfavillante, irraggiungibile e per certi versi disumano, spogliato di ogni autentica vestigia antropica. Un luogo dove le ombre si trasformavano fulmineamente in star iperuraniche, dove le passioni si mischiavano in folli notti orgiastiche, e dove Dioniso sembrava far capolino da ogni istante di vita vissuta aldilà del set cinematografico.
Sullo sfondo il cinema nel suo farsi, con le intuizioni, le tecniche, la recitazione che divengono stato dell’arte nel preciso istante del loro manifestarsi sul set. Tre vite si incrociano in questo incipit della Settima Arte: un attore celebrato che incontrerà inesorabilmente il suo declino (Jack Conrad interpretato da Brad Pitt), una giovane donna affamata di successo che brucerà in uno iato la sua sfavillante carriera (Nellie LaRoy interpretata da Margot Robbie) e un giovane messicano appassionato di cinema che approda nel dietro le quinte di quel mondo a lungo bramato fino ad incarnarne le feroci contraddizioni e a fuggirne disgustato (Manny Torres interpretato da Diego Calva). Il twist saettante di queste tre vite che si intersecano fino a bruciarsi a vicenda è lo scheletro narrativo della vicenda che copre i 6 anni che corrono tra il 1926 e il 1932 (con un epilogo finale ambientato 20 anni dopo).
Il film ha ricevuto critiche caustiche e spesso ingiustificate, si veda ad esempio la crudele visione che ha dato Eileen Jones in questo articolo pubblicato su Internazionale, e ampiamente citata in trasmissione. E con la Jones tanti altri hanno attaccato Chazelle per la sua visione idealizzata e spogliata di ogni rigore filologico dell’eta d’oro del Cinema. A nostro parere invece proprio questo reiterato narcisismo registico rivela ancora una volta il talento di Chazelle per una narrazione iconografica spogliata di ogni artificio, con una profonda conoscenza della scansione narrativa e degli incastri storici che ne costellano il suo farsi. Tutto questo con una profonda sensibilità visiva: il sapere, cioè, dove collocare il suo punto di vista senza imporlo mai allo spettatore come un dato di fatto, ma come uno strumento di anodina conoscenza. La sua cinepresa è l’occhio apertissimo di un Demiurgo che non influenza minimamente ciò che lo circonda, ma che fedelmente lo racconta attraverso uno scroscio iconografico di inquadrature e sensazioni. Ed attraverso questo suo sguardo il significato ultimo del film prende corpo quasi plasmato da mani invisibili. Un’opera che pochi registi riescono a realizzare con così disincantato candore. Babylon è una gioia per gli occhi e un prezioso retaggio di ciò che il cinema era, ed è diventato attraverso quella fase embrionale. Uno sguardo gettato aldilà di ogni barriera temporale per restituire su pellicola la magia che si sprigiona da oltre un secolo attraverso quel fascio luminoso e quello schermo che abbiamo davanti. Di più, davvero, non era possibile chiedere a Damien Chazelle.
Il podcast di questa decima puntata di Viaggio nella Luna non poteva quindi che focalizzarsi su questa opera capitale, attraverso le parole di Marco Belemmi e Thomas Filippi che lo hanno visto al suo debutto in sala. In studio Federico Minguzzi, Francesco Morosini ed Alessandro Boccalini contribuiscono poi ad arricchire il dibattito perdendosi in roboanti riflessioni sullo stato del Cinema e della mente umana tout court. Terribili segreti che avrete la possibilità di sviscerare nell’ascolto del podcast in calce, qualora avrete la compiacenza di cliccare sul tasto play.
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Sono un essere senziente. Mi occupo di varia umanità dall’età di circa due anni. Sono giunto al mezzo secolo di esperienza vissuta su questo Pianeta. Laureato in Lettere Moderne con una tesi sulla Poetica dell’ultimo Caproni nel 1996. Interessato al cinema dall’età di tre anni e mezzo dopo una sofferta visione dei Tre Caballeros della Disney, opera discussa e aspramente criticata in presenza delle maestre d’asilo. Alla perenne ricerca di un nuovo Buster Keaton che possa riportare luce nelle tenebre e sale nei popcorn.
A me il film è piaciuto proprio per i suoi eccessi, per chi ama il cinema senza tempo questo è un bel manifesto, oltretutto ci restituisce una recitazione sopra le linee tutti bravi.viva il cinema vero e non i videogiochi.