CLIMAX di Gaspar Noè
Quello di cui stiamo parlando in questo articolo è puro cinema. Questa affermazione un po’ estrema è stata da me ragionata e ponderata nell’arco delle 24 ore che sono succedute alla visione del film. Tale tempo è stato necessario per assimilare e digerire quanto osservato, ma cerchiamo di procedere con ordine.
Il film questione è Climax di Gaspar Noè. La trama è semplice, una ventina di giovani ballerini si riuniscono per uno stage di tre giorni in un collegio in disuso. Dopo le prove danno una festa, si ubriacano, tutto va per il meglio, fino a quando iniziano a capire che c’è qualcosa nella sangria. E il clima cambia rapidamente. Questa la trama, semplice e diretta, zero fronzoli. Quello che rende questo film stratificato, audace, vertiginoso, estasiante, visivo e visionario è la regia e la messa in scena del regista che diviene centro del tutto e voce del film. Per capire e intervenire sulla stratificazione del film dobbiamo considerare alcuni elementi che fanno di questo esperimento qualcosa di più che un semplice gioco di regia.
LA SCENEGGIATURA
Primo punto da considerare è ovviamente la sceneggiatura del film che misura solo cinque pagine per circa due ore di pellicola, questo perché l’intero progetto si basa sull’improvvisazione e sull’uso del corpo dell’attore. Noè in questo suo ultimo film interviene sull’attore utilizzandolo come strumento, come marionetta i cui fili non sono nelle mani del regista, ma vengono affidati all’attore stesso e alla improvvisazione dei venti ballerini (nessuno di loro è un attore professionista). Il regista decide di giocare sull’improvvisazione del corpo, mostrandocelo spoglio di ogni sua grazia e finezza. Mostrandoci senza pudore e con uno sguardo acido e allucinato osserviamo corpi contorcersi, accoppiarsi, nudi e carbonizzati, morti. Persone urlanti e la degenerazione intrapresa nella più feroce forma motoria che i bravissimi ballerini hanno saputo esprimere.
LA REGIA
Questa vocazione all’improvvisazione corporea porta il regista a spingersi verso una libertà assoluta nella struttura filmica, liberandosi o volendo rompere gli argini del cinema con l’utilizzo di trovate stilistiche forse non innovative, ma sicuramente efficaci. Come la scelta di posizionare i titoli di coda all’inizio della pellicola e i titoli di testa dopo 45 minuti, oppure lasciandosi la libertà di tener la telecamera testa in giù per dieci minuti buoni di film andando a cercare/seguire la performance dei performer. Il film segue i ballerini e la storia grazie all’ausilio di macro piani sequenza che il regista sapientemente architetta per lasciar scivolare lo spettatore tra i movimenti e i corpi inquadrati.
La struttura narrativa del film lo mostra in tre sezioni: una prima dedicata alle interviste dei protagonisti, inquadrati in 4:3 e mostrato in un televisore a tubo catodico che, inserito in un’inquadratura a 16:9 da possibilità al regista di riempire i due spazi ai lati della tv con libri e vhs. Una dichiarazione di Noè nei confronti di certo cinema che si pone come faro per la lettura della pellicola. Grazie al formato televisivo i protagonisti, in questa parte di film, sembrano quasi imprigionati e racchiusi nelle loro credenze e nelle loro costruzioni. Tali costruzioni vengono rotte dissacrate con la seconda sezione del film dove vediamo finalmente i ballerini liberarsi e muoversi per l’intero spazio del 16:9 cinematografico. In questa sequenza non solo abbiamo una coreografia con i ballerini intenti a provare e, a fine prove, poi far festa bere, ubriacarsi mostrando le prime dichiarazioni e fragilità. In questa seconda parte il corpo si libera e viene attuato ciò per cui sono lì, ovvero la danza. Quello che vediamo è un gruppo coordinato e coeso che balla alla perfezione e con immensa professionalità. Questo immaginario viene lentamente frammentato durante i passaggi successivi del film, prima leggermente tramite la separazione del gruppo in coppie che, durante la festa, parlano e si rivelano. Qui andiamo in una contrapposizione stilistica molto forte, ovvero passiamo da un lunghissimo piano sequenza ad una serie di inquadrature fisse, frammentate dal montaggio. L’ultima sessione del film consiste nel viaggio nell’abisso più profondo, qui abbiamo un lunghissimo piano sequenza che ci porta nella disgregazione più totale del gruppo e dei personaggi stessi, i quali si allontanano sempre di più dalla loro dichiarazione iniziale, una disgregazione carnale, psicologica e metaforica.
CONCLUSIONE
Gaspar Noè si affaccia sulla strada mostrataci da Dziga Vetrov senza intraprenderla. Il suo film parla attraverso le immagini su una storia soltanto accennata e non disegnata e preparata minuziosamente. Un film che nulla a che invidiare a quel malessere che Pascal Lauguer ci lascia dopo la visione del suo Martyrs. Se quest’ultimo ci mostra la ricerca dell’aldilà e fino a che punto siamo disposti a spingerci per affrontare la paura della morte, qui abbiamo la metafora di una società malata che sta per esplodere e che visceralmente nasconde più scheletri nell’armadio di quanti non ne possiamo immaginare. Ed è proprio in questo amaro in bocca a fine visione che sentiamo la vicinanza a Luagier. Non è un caso infatti che i due autori si ritrovano tra i registi del New French Extremity, il movimento che sta a indicare una collezione di film trasgressivi di registi francesi a cavallo del 21° secolo.
Climax è un film intenso e stratificato che necessita di più visioni. Un prodotto che si presta meglio al VOD e alla visione casalinga che al cinema appunto per questa sua esigenza e Noè si dimostra uno degli autori con la A maiuscola del nostro secolo.
Alessandro Nunziata
regista/proiezionista/cinefilo/nerd