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La storia di una famiglia nella Rimini degli anni ’30 diviene l’occasione per un’antologia di scene come visioni che riaffiorano dalla memoria (Amarcord appunto, mi ricordo). L’oppressione fascista con le squadracce che fanno bere l’olio di ricino al capo famiglia perchè durante la parata del Potestà ha fatto suonare un grammofono con l’Internazionale, il pranzo di famiglia dove i problemi della giornata si affrontano con il pater familias che dal suo posto a capo tavola dispensa rimproveri e saggezza, l’emiro in visita alla città con il suo harem di cento mogli, la donna più bella della città, la Gradisca, e i suoi vestiti provocanti, la prima neve, e poi una parata di personaggi: la Tabaccaia, il ragazzo distrutto dalla masturbazione, il nonno saggio e scorreggione, il motociclista che saetta a folle velocità, lo zio scapolo e desideroso di una compagna e tantissimi altri. Un Fellini che guarda con fervida tenerezza e verve ironica alla sua città natale e ne ricrea atmosfera e malìa negli studi di Cinecittà. Una Rimini da cui escono personaggi che sembrano fate e folletti a zonzo nella bruma della sera e su cui cala l’occhio paterno del grande Federico. Una città smembrata e passata al setaccio nella sua umanità, nella sua storia, nella sua presenza immemore nella mente del regista riminese. Segnalazione per la spassosissima scena in cui Ciccio Ingrassia si arrampica su un albero e grida ai 4 venti il suo desiderio di una donna. Tutto lo spirito autentico di una terra ai confini tra papato, bisanzio e nuovo millennio sta in questo vagolante singulto, in questo grido apotropaico.

Titolo originale: Amarcord

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