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Capita raramente che un titolo di grande successo commerciale possa incontrare anche il consenso unanime della critica e riuscire così a fondere film d’autore e opera di successo al botteghino, arte e denaro. Blade Runner 2049 è uno di quei rari casi in cui è accaduto precisamente questo: un successo enorme di pubblico e critica che ha immediatamente proiettato questo titolo nell’Empireo della storia della Cinematografia.

Le premesse erano davvero ardue: partire da un capolavoro come Blade Runner di Ridley Scott per realizzare un sequel che fosse credibile e rispettoso del tessuto narrativo e iconografico originario era davvero un enorme montagna da scalare per Denis Villeneuve. Ma questo regista ci ha spesso abituato ad un cinema capace di fondere un possente senso dell’immagine ad una narrazione avvolgente ed in qualche modo obliqua, e queste due doti lo hanno aiutato non poco nella realizzazione di questo splendido lungometraggio.

Blade Runner di Scott si era chiuso con la fuga di Rachel e Deckard verso un destino ignoto, con un ascensore che chiudeva un immaginario sipario sulla storia travagliata dei due. Blade Runner 2049 rivela cosa è successo dopo che quelle porte dell’ascensore sono state chiuse tanti anni fa. La verità viene scoperta per caso da un nuovo Blade Runner, il taciturno K (Ryan Gosling), che fa parte di una nuova generazione di replicanti creata dal genio della tecnologia Niander Wallace (un barbuto Jared Leto). Il paradosso quindi è che ora i replicanti cacciano i replicanti. Il predecessore di Wallace, la Tyrell Corporation, aveva chiuso decenni prima, lasciandolo a subentrare nel lavoro di fabbricazione di schiavi artificiali. Spetta a K trovare e uccidere l’ultimo della serie di replicanti Tyrell, il Nexus-8. Durante una delle sue missioni, a casa di un replicante in fuga che lavora come coltivatore di proteine (Dave Bautista), K scopre una scatola chiusa a chiave sepolta ai piedi di un albero.

Di ritorno al quartier generale della polizia di Los Angeles, si scopre che le ossa appartengono a una donna morta di parto. A un’indagine più approfondita, K apprende che la donna era una replicante – il che solleva la straordinaria proposta che l’ultimo grande esperimento di Tyrell sia stato quello di creare un non umano capace di riprodurre la vita, capace di CREARE la vita. Spinto dal suo capo, il tenente Joshi (Robin Wright), K inizia a indagare ulteriormente. Il comando di Joshi è che K deve trovare e uccidere il bambino nato dal replicante prima che la verità venga a galla. K, già ambivalente nel suo lavoro di boia, sente una crescente spinta emotiva attorno alla missione. La data scolpita ai piedi dell’albero dove fu sepolta la madre replicante corrisponde nella memoria di K agli stessi sei numeri scolpiti sulla base del suo giocattolo preferito, un cavallo di legno. K potrebbe quindi essere il figlio scomparso del replicante morto?

Visivamente straordinario, grazie all’Arte di Roger Deakins in sede di Direzione della Fotografia, il film punta tutti i suoi talenti sul retaggio iconografico dell’opera di Scott, attualizzandolo e contestualizzandolo in un nuovo universo plasmatosi dal precedente. I colori sono un vortice cromatico che colpisce lo spettatore e separa la narrazione per scene e capitoli, le atmosfere sono l’eco lontana della metropoli stralunata di Scott, i personaggi sono la diretta emanazione di quel surrogato di umanità che solcava le strade di Los Angeles con grottesca postura. Ma la verosimiglianza non è solo estetica ma anche semantica con l’opera precedente, e il film riscopre i vecchi personaggi del passato che si muovono nella nuova storia con dinamica scioltezza. Come Deckard e soprattutto Roy Batty anche K è un attonito pellegrino in cerca di risposte, in cerca di un senso ancestrale alla propria esistenza. Come loro anche K è intrappolato nel dilemma Dickiano che vede Realtà e Sogno, Essere e Non Essere compenetrarsi fino ad occupare l’intero orizzonte del Reale. Un angosciante quesito che imprigiona il protagonista in un reticolo di domande senza uscita.

In modo brillante e miracoloso Blade Runner 2049 fa tutto questo senza sentirsi come una ricostruzione viziata di un film fondamentale per la Storia del Cinema. L’affetto di Villeneuve per il mondo che Scott ha creato è evidente, ma i ritmi e il simbolismo del film appartengono alla sensibilità del regista. La ricerca esistenziale di K non è la stessa di Batty e Deckard. K non vuole un’estensione della sua vita, né incontrare il suo creatore, nè sapere da dove provengono i suoi ricordi. Il suo desiderio, almeno per come lo vediamo, è di trovare una connessione con qualcosa di più grande: sentire che la sua vita ha valore, che esiste per uno scopo al di là di quello di un assassino sponsorizzato dallo stato. Ed è precisamente in questo che Blade Runner 2049 assurge ad una grandezza narrativa che non sfigura con il senso ultimo con cui Philip K. Dick aveva intessuto il suo romanzo. E forse qualità più eccelsa non gli si poteva chiedere.

Titolo Originale: Blade Runner 2049

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  1. massimiliano 10 Aprile 2021

    Riuscito. non ha superato il primo, ma non lo ha cancellato. Unica presenza di troppo, unica debolezza, a mio parere, è la ricomparsa di Harrison Ford, che doveva essere evitata. Ma se il primo era un film di fantascienza filosofico come mai questo rimane un film di fantascienza? Comunque avercene.

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