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Cold War è una storia d’amore raccontata attraverso la musica. Melodie lamentose e strazianti intonate da contadini polacchi del dopoguerra, o da bambini grottescamente solenni, o da donne piegate dalla fatica del loro lavoro, ognuna su amori impossibili e su passioni dilanianti.

Wiktor (Tomasz Kot) è alla guida di un coro che si fa promotore di questa musica e sogna di elevarla ad arte. E’ un uomo estremamente competente che cerca di far emergere i talenti locali per costruire un grande ensemble corale. Passa così in rassegna tutte le ugole del luogo realizzando delle audizioni. E’ proprio ad uno di questi provini che incontra Zula (Joanna Kulig). Con la sua voce trascendente ma al tempo stesso terrena, canta un’aria popolare russa con ruggente spavalderia. “Grazie, cuore” canta a braccia tese “per saper amare in questo modo.” Zula è una ragazza audace e volitiva, con un lampo irriverente nello sguardo che irretisce immediatamente l’inerme Viktor. La prima confessione che gli fa è il racconto di come ha ucciso suo padre. “Mi ha scambiato per mia madre, quindi gli ho mostrato la differenza tra me e lei con un coltello”, spiega in maniera concreta. Viktor non può far altro che innamorarsi perdutamente.

Non appena Wiktor organizza il primo spettacolo del coro – con Zula come protagonista – il governo sovietico si interessa, vedendolo come un perfetto portavoce della propaganda sovietica. Wiktor e la sua partner di produzione Irena (Agata Kulesza) stringono i denti mentre l’ensemble canta un glorioso inno a Stalin di fronte a un enorme stendardo del suo viso, e quando il governo finanzia un tour che li porta a Berlino, Wiktor pianifica la sua fuga con Zula. Ma lei non lo incontrerà mai al loro appuntamento programmato, e lui attraversa il confine da solo, apparentemente viaggiando attraverso il tempo verso le luci brillanti di Berlino Ovest.

Inizia così un decennio di crollo e poi di incredibile ritorno tra Zula e Wiktor, a Parigi, in Jugoslavia, e di nuovo in Polonia. Wiktor lavora come musicista e compositore a Parigi, assorbendo la creatività e i costumi sciolti della scena jazz, ma quando arriva Zula, si scaglia contro la convivialità borghese. Pawlikowski lascia che sia la musica – la loro lingua, il loro genere, il modo in cui sono cantati – a suggerire gli stati d’animo del loro amore e il progressivo sfaldamento dei due. Come un’interminabile dissolvenza i due vorticano intorno ad un ritmo che li astrae e li rende sconosciuti l’uno all’altra per poi riavvicinarli in un vortice senza fine che ricorda le anime sospese del Limbo Dantesco. Infine i due amanti incidono un disco insieme.  Zula  ha cambiato il suo stile per adattarsi al mood del jazz francese, trasformando la sua voce in un roco sospiro, ma la sua voce è anemica rispetto all’inimitabile ricchezza di prima. Zula è diventata una donna ostile e mordace, si fa beffe delle metafore che la fidanzata della poetessa di Wiktor scrive per farle cantare. Lascia Viktor ed inizia a girovagare raccattando una sorta di marito in Italia, poi torna da Viktor. La nuda sincerità delle canzoni della sua terra natale è ciò che la illumina davvero. I due amanti sono infine giunti ad un punto di non ritorno: un non luogo dove la loro attrazione sembra essere la legge fisica ineludibile che li respinge.

Il film di Pawel Pawlikowski, basato vagamente sulla storia dei suoi genitori, attraversa la cortina di ferro e si svolge all’ombra delle difficoltà che minano una piccola storia d’amore fino a renderla universale, l’idea stessa dell’Amore. Ma è il costante dialogo con quello sfondo ambiguo e vacuo in cui è immersa la storia, evolvendosi ad ogni cambio di posizione e salto temporale, che rende questa opera multitonale e preziosa. La musica guida il desiderio che unisce i due amanti, li divide e si evolve con loro, raccontando una storia complementare di un Amore idealizzato e reso infine vacuo da incomunicabilità e distanza. Girato in un bianco e nero abbacinante in 4:3 (come già il suo precedente film, Ida, premio Oscar 2013 come miglior film straniero), è visivamente sbalorditivo, passionale, malinconico e denso di particolari in egual misura. Un’opera non omologabile che raggiunge subito il cuore di chi la guarda e ne fa brandelli.

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