I Sette Samurai
Akira Kurosawa piazza la sua macchina da presa ancora una volta nel Giappone medioevale per raccontarci la storia di un manipolo di ardimentosi samurai disoccupati che troverà un impiego presso un villaggio frequentemente attaccato da bande di predoni. Sarà l’occasione per un’epopea dove coraggio e senso dell’onore saranno costantemente alla ribalta. Un senso della regia fantastico e una storyboard accattivante fanno di quest’opera un monumento del cinema e un punto d’arrivo per ogni operatore del settore. “I sette samurai” non è solo un grande film a sé stante, ma la fonte di un genere, l’archetipo ultimo, che avrebbe influenzato il genere per il resto del secolo. Il critico Michael Jeck suggerisce che questo è stato il primo film in cui una squadra viene assemblata per svolgere una missione, ed istantaneamente questo tema narrativo diviene un vero e proprio pattern, un modello a cui ispirarsi. E a proposito di modelli, il film ne è letteralmente pervaso, visioni ripetute de “Sette Samurai” ne rivelano infatti modelli narrativi ricorsivi che sono tornati nelle opere dei decenni a venire. Si consideri l’ironia, per esempio, in due sequenze. Nella prima, gli abitanti del villaggio hanno sentito i banditi che stanno arrivando, e corrono in giro in preda al panico. Kambei ordina al suo samurai di calmare e contenerli, e il Ronin fa la spola da un gruppo all’altro (gli abitanti corrono sempre in gruppo, non singolarmente) per riunire la mandria e intimargli di restare ai propri posti. Più tardi, dopo che i banditi sono stati respinti, un bandito ferito cade nella piazza del paese, e ora gli abitanti del villaggio corrono spavaldamente in avanti con ritardato coraggio per ucciderlo. Questa volta, il samurai li respinge indietro con malcelato disprezzo. Un vero e proprio modello di ironia verso il popolo-gregge che ritornerà in tantissime altre opere.
Titolo originale: Shichinin no samurai