Il Profeta
Audiard si dimostra fine affabulatore nel campire questo vivido affresco della vita di un uomo, o per meglio dire della sua parabola criminale: da mezza tacca senza alcuna prospettiva a boss temuto e rispettato. La formazione dell’uomo, il suo silenzioso apprendere, il suo darwiniano adattamento alla dura vita del carcere, la sua ambigua passività, i suoi invisibili turbamenti, la sua spietatezza: tutti elementi che gradatamente compongono una visione di abbacinante realismo, un crudo resoconto filmato con sensibilità e polso fermo. La storia è quella di Malik el Djebena, un giovane arabo di 19 anni finito in carcere con 6 anni di condanna da scontare. Nel mondo carcerario dovrà velocemente adeguarsi ad un altro codice di regole se vorrà sopravvivere. Il suo spirito di adattamento lo porterà sotto la protezione di un boss corso. Il giovane userà l’amicizia per condurre sotterraneamente un doppio gioco fino a divenire più potente e temuto del suo stesso protettore. Splendide alcune sequenze come l’uccisione del detenuto con la lametta da barba nascosta in bocca. Audiard gira le sequenze carcerarie con consumato mestiere, alimentando la tensione narrativa con repentini restringimenti di campo e primi piani ossessivi del protagonista. Lo stile di Audiard ricorda molto da vicino il Jacques Becker de Il Buco, prezioso archetipo francese del genere carcerario e sicura fonte di ispirazione per il regista parigino. Colpisce il profilo psicologico di Malik, portato avanti nella narrazione con sottile maestria introspettiva e seguito nei suoi più intimi recessi con morbosità voyeuristica e al contempo razionalismo scientifico. Un’opera davvero notevole, in cui spicca la mano di un regista tra i più interessanti dell’ultima generazione francese di cineasti.
Titolo originale: Un prophète
bello, bello, un bel melò cupo e teso e originale.