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Jean Cocteau rilegge la celeberrima fiaba della Beaumont in chiave onirico-danzante. Ne esce, manco a dirlo, un capolavoro cinematografico che fa tabula rasa del bagaglio neorealista e strizza l’occhio a surrealismo e dadaismo. La storia è quella di Belle, quarta figlia di un ricco signore che cade in rovina. La ragazza si prostra ad umili lavori mentre i fratelli conducono la stessa vita dissoluta. Belle dovrà poi concedersi prigioniera alla Bestia nel suo castello per salvare il padre. Ne nascerà un grande amore oltre ogni tempo e misura umana. La dimora della Bestia è una congerie di artifici fantastici che conferiscono immediatamente alla storia un’aura surreale, fiabesca, barocca. In effetti la dimora della Bestia è una delle più strane mai viste in un film fino ad allora. La sua sala d’ingresso è fiancheggiata da candelabri sostenuti da braccia umane viventi che si estendono sulle pareti e sembrano ghermire il visitatore. Le statue sono vive e i loro occhi seguono i personaggi sulla scena. Le porte si aprono da sole e i piedi di Bella non si muovono affatto, ma scivolano, come se fossero attratti da una forza magnetica. Bella è sconvolta nel vedere il fumo che si leva dalla punta delle dita della Bestia, un probabile segno che la creatura ha appena ucciso. Quando la porta della sua camera da letto si apre, Bella scopre che ha vestiti comuni su un lato e un costume da regina sull’altro, metafora perfetta della doppia natura di quel mondo: ferinamente reale e maestosamente fiabesca.

Scenografia, costumi e fotografia curatissimi dunque, grazie all’ineguagliabile abilità artigianale dello scenografo Christian Bérard che ebbe un ruolo determinante nella genesi estetica dell’opera collaborando strettamente con Cocteau e determinandone spesso le scelte artistiche in corso d’opera. Un’opera sospesa tra sogno e incanto, un caposaldo della settima arte imitata e clonata nel corso degli anni a venire, come solo ai grandi archetipi iconografici accade.

Titolo originale: La belle et la bête

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