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Ventiquattro personaggi ruotano intorno ad una convention politica che si deve tenere a Nashville in Tennessee. Altman non fa altro che seguire le loro storie, una per una, ne tesse le fila come un sottile ordito e ricompone le tessere di un puzzle via via che ce lo presenta davanti. Non è tanto il cast nè tantomeno l’ambientazione a fare di Nashville un capolavoro del cinema contemporaneo, quanto piuttosto l’introspezione psicologica di ogni singolo personaggio e la scarnificazione di ogni desiderio represso che arriva con la potenza e l’impatto visivo di una scena d’azione. Altman vuole l’uomo, nelle sue debolezze, nelle sue falsità, nella sua ipocrisia. La convention in questione è stata organizzata in supporto di un candidato indipendente alla presidenza degli Stati Uniti che fa dell’antipolitica e della lotta al conformismo il suo principale credo politico. E Nashville oltre a tutto ciò è anche uno straordinario film musicale (le canzoni del soundtrack originale sono ventisette) e molte di queste sono state composte dagli attori a cui Altman diede carta bianca. A questo proposito celebre è la canzone che Keith Carradine intona sul palco, “I’m Easy” composta da lui stesso: una struggente melodia che aleggia nella sala tra i volti delle donne che lo hanno amato e di cui Altman, come un voyeur acquattato nell’ombra, spia ogni più sottile emozione che traspare dal loro viso. E mentre le note della canzone si spandono nella sala Altman ci presenta una galleria di donne sedute in ascolto, ognuna con il proprio carico di pensieri e di emozioni. Ogni singola storia convergerà verso un destino comune, ogni singolo sforzo si intreccerà inevitabilmente con quello di un altro personaggio chiamato in causa in una sorta di gioco infinito di specchi.

Titolo originale: Nashville

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