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Un mare di altissima erba è scosso dal vento che sembra avvinghiarsi ai teneri steli giocando a creare turbinanti increspature. Ovunque si spinga l’occhio c’è Susuki sedotta dal vento, l’erba di pampa giapponese che nasconde le cose e gli uomini come un enorme Demone dormiente. L’immagine di apertura di Onibaba è di una bellezza raggelante. Kaneto Shindo, finissimo esteta, sceglie così l’incipit del suo film, introducendo obliquamente la narrazione e lasciando parlare a lungo la Natura e i suoi tenebrosi artifici, in un bianco e nero che srotola questo bucolico incanto con studiata malia, lasciando lo spettatore in balia del cupo ululato del vento e di una musica gutturale e cacofonica.

Due samurai feriti e in fuga cercano riparo in questa brulicante barriera verde tentando di sfuggire ai nemici a cavallo. Una volta credutisi in salvo crollano sfiniti a terra. Ed è proprio in quell’istante di effimera salvezza che vengono colpiti da una lancia invisibile che li uccide all’istante. Dal folto dell’erba appaiono due figure femminili, sono le ladre e le assassine protagoniste della storia. Due donne cui la guerra ha portato via gli uomini che lottano per sopravvivere uccidendo soldati e vendendo le loro spade e armature per un pugno di miglio. La più anziana è la madre del marito della giovane, entrambe vivono in una capanna nascosta dagli alti steli di Susuki, una vita di povertà e sacrifici in attesa del ritorno del figlio. Siamo nel XVI secolo, in piena guerra Onin che oppone i Kanrei, i signori feudali, in una lotta feroce e senza quartiere. La sopravvivenza della popolazione civile in questo periodo è davvero messa a dura prova: le coltivazioni vengono distrutte, gli uomini sono tutti impegnati negli scontri e donne, bambini e anziani muoiono di fame nelle campagne. La routine delle due donne viene stravolta dall’arrivo di un vicino di casa, compagno di battaglia del figlio Kichi, che ritorna a casa dopo atroci vicende belliche. L’uomo annuncia che Kichi è morto in guerra e ne seduce la moglie in un serrato corteggiamento che sfocia in una passione sfrenata tra i due. La madre di Kichi si oppone a questa relazione in ogni modo, avendo egoisticamente paura di rimanere sola e di non essere più in grado nè di uccidere nè di rubare per sopravvivere. Così escogita un diabolico piano: ruba una maschera demoniaca ad un samurai di passaggio, uccidendolo, e usa questo travisamento per spaventare la nuora ed allontanarla dai piaceri della carne. Ma il potere che cela la Maschera si ritorcerà contro la donna in un terribile coup de théâtre finale.

L’interesse di Shindo non è per la guerra ma per chi la subisce. Il suo vigile occhio è puntato sui più deboli e sui mille artifici che questi mettono in atto per sopravvivere. In una famosa dichiarazione il regista ebbe infatti a dire: “Il mio occhio, o meglio l’occhio della telecamera, è puntato per osservare il mondo dal livello più basso della società. E se devi guardare la società attraverso gli occhi di quelli che stanno al livello più infimo di essa, non puoi sfuggire al fatto che devi sperimentare e percepire tutto con il senso della lotta politica tra le classi.”. Ed è proprio questa immane battaglia per la sopravvivenza il punto focale delle sue opere. Ricordiamo L’Isola Nuda e l’asprezza della vita dei protagonisti per riuscire a coltivare un brano di terra strappandolo alla furia della Natura. Anche in Onibaba questa tremenda tensione alla vita dei più umili è la corda che fa vibrare la narrazione, ed è in definitiva il suo atroce incanto.

Titolo Originale: Onibaba

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