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Il film che più ha influenzato gli anni novanta: violento, asincrono e verboso è un’opera fondamentale per comprendere il cambiamento della cultura cinematografica per quel che riguarda il genere gangster movie. Un’opera nuova, sofisticata, densa di dialoghi, personaggi, e situazioni che hanno inciso significativamente sulla scena culturale mondiale, non limitandosi ad influenzare il cinema ma plasmando un repertorio iconografico entrato a far parte del vissuto di ognuno di noi. Quentin Tarantino, due anni dopo Reservoir Dogs, il film che lo aveva segnalato a critica e pubblico, tira fuori una splendida galoppata attraverso le anime forti della città: gangster dai toni biblici, killer cocainomani di ritorno da Amsterdam, pugili doppiogiochisti, boss sodomizzati, poliziotti sodomiti, vamp drogate, annoiate e sofisticate, rapinatori che amano chiamarsi “coniglietto” e zucchina”, pusher molto ospitali. I suoi personaggi sono sempre in bilico tra devastazione morale e tenero disincanto: un branco di angeli famelici di vita vissuta, precipitati da qualche cielo nel sordido sottobosco della Città dove si combatte all’ultimo sangue per una boccata d’aria. Un’opera che ha segnato il debutto della scansione temporale “partizionata”, una sorta di marchio di fabbrica di Tarantino iniziato con le Iene e giunto al suo culmine in questo film: ogni scena è slegata dal contesto cronologico del film. Il tempo, come spesso i dialoghi, è retto da un temperamento diacronico sincopato, quasi uno spartito jazz che s’avviluppa con spontaneità al narrato incrociandone i ritmi spezzandone la linearità. Un’opera che scava nell’animo metropolitano di ognuno di noi, con un montaggio e una regia di maniacale virtù, fregiandosi di interpretazioni magistrali e dialoghi deliziosamente brutali, dialetticamente giganteschi. Si viene magneticamente trascinati nelle storie di ognuno di questi antieroi e non si vorrebbe più lasciarli.

Titolo originale: Pulp Fiction

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