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Rilettura shakespiriana di Re Lear, Ran di Kurosawa ha da subito i crismi dell’opera cardinale. Intanto un’opera maestosa che coinvolge migliaia di comparse, costumi, filming locations, ricostruzioni storiche, anni di riprese e di lavoro di post-produzione per quasi tre ore di durata. Kurosawa si è detto rilegge Shakespeare ma lo fa accentuandone i toni di follia e crudeltà di ogni singolo personaggio chiamato in causa. Tutte le vicende di Ran sono infestate da passioni violente che sfociano in contrasti titanici. Ran, che in giapponese ha un significato ambivalente di caos e follia, è ambientato nel Giappone feudale del sedicesimo secolo. Un signorotto locale, in procinto di morire, divide il regno tra i tre ambiziosi figli. Con la spartizione del regno tuttavia si scatena una guerra fratricida che sfocerà in una sanguinosissima guerra civile. Memorabile allora è la condanna del Signore alle basse passioni che sfociano nella brama di potere, monologo permeato di un’amarezza e di un cinismo senza via d’uscita. Tra le tante scene una riaffiora alla memoria con più persistenza: Kurogane, un ufficiale dell’esercito di Jiro, affronta Lady Kaede, amante dello stesso Jiro, che lo ha spinto ad una guerra rovinosa manovrandolo a suo piacimento chiedendo alla donna spiegazioni sulla rovina della casata e ricevendo una risposta sprezzante: “era esattamente mia intenzione far cadere la casata di Jiro per vendicare la morte di mio padre”. La donna pronuncia la frase guardando con disprezzo e fierezza il militare. Kurogane cala allora la sua katana sul niveo collo screziando di scarlatto il muro della stanza, ma la vendetta di Kaede è ormai compiuta. Un film denso di avvenimenti cupi, di figure crudeli e di narrazione epica alternata a raffinata indagine psicologica che impreziosisce ogni singolo fotogramma.

Titolo originale: Ran

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