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Nel Giappone feudale del 12esimo secolo una donna viene violentata e suo marito ucciso. Akira Kurosawa disseziona questo crimine disponendolo in un vetrino da microscopio e fornendone diverse versioni che formeranno un quadro d’insieme via via più nitido e spietato. Ogni personaggio implicato in questa vicenda è parte di un complesso meccanismo semantico che fornisce un tenue spiraglio sulla Verità Ultima dei fatti, ogni fonte è una tessera del puzzle del Reale. Una vicenda dapprima drammatica poi grottesca che via via prende consistenza alla luce dei racconti. Un’opera che intesse una filosofia secondo la quale la realtà è costituita di innumerevoli versioni diverse, figlie della psiche umana e della traiettoria soggettiva che acquista ogni singolo evento reale. Una tassonomia della diffrazione, una disarmonia prestabilita che ci stordisce, ci inebria, ci porta a parteggiare per l’una o l’altra versione. Un Kurosawa che giganteggia dietro la macchina da presa, con inquadrature mai ridondanti, tese a snudare l’animo umano e i suoi meschini rivolgimenti. Da menzionare l’interpretazione di Toshiro Mifune, attore-feticcio idealizzato in gran parte della filmografia del Maestro nipponico.

Titolo originale: Rashômon

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