Roma
Roma è un grandioso progetto cinematografico partorito dalla fervida mente di Alfonso Cuarón, che ne ha curato la regia, la sceneggiatura e soprattutto la messa in scena con un’attenzione quasi maniacale alla fase delle riprese effettuate in un magistrale bianco e nero con l’ausilio di macchine digitali, obiettivi da 65 mm e suono Dolby Atmos. Il prodotto che ne è scaturito, distribuito da Netflix, e transitato per un breve periodo nelle sale cinematografiche prima di approdare alla piattaforma di streaming, è un abbacinante prototipo estetico di Arte Cinematografica da cui tanti attingeranno.
L’ambizione era quella di ricostruire Città del Messico del 1970 con il maggior numero di dettagli possibile, per offrire il massimo di informazioni alla retina (e all’udito) degli spettatori, mettendo in campo un’assoluta nitidezza dei ricordi personali, una valanga di pixel quasi a comporre l’equivalenza della frase proustiana “è dalla memoria che stiamo parlando qui”. E non vi è dubbio che il film è un lungo viaggio attraverso la Memoria, con meraviglia e disincanto, con blanda e sobria vaghezza, quasi a ripercorrere le orme della Recherche di Marcel Proust. Del resto è lo stesso Cuarón che ammette la suggestione proustiana: “Ho riletto la Recherche quando ero in post-produzione. Mi sono reso conto di non averla capita la prima volta. Ero troppo giovane, tutte quelle descrizioni romantiche mi erano passate per la testa con velocità e indifferenza. Oggi, entrando nell’ultimo periodo della vita, quello che ci obbliga a confrontarci con i ricordi, quello in cui sento intensamente la differenza tra chi sono e chi sono stato, non c’è più nulla di romantico, ma subentra un’accettazione della casualità dell’esistenza. Non so se il film si possa definire Proustiano – del resto come ci si può confrontare con il genio di Proust? Roma è lineare, mentre lo scrittore è libero di esplorare tutti i corridoi della memoria. Tuttavia anche la mia opera, nel suo piccolo,catturando l’essenza del passato, permette allo spettatore di connettersi con i propri ricordi, o di subirne il fascino.”
Corre l’anno 1970: i manifesti per i Mondiali di Calcio di quell’estate, che si tengono in Messico, sono appesi nella camera da letto di un bambino. Il titolo del film si riferisce al quartiere omonimo della metropoli messicana e alla convinzione del regista che Città del Messico abbia seguito le orme della città latina nella sua espansione vorticosa degli ultimi anni, una quasi-Roma nella sua frenesia e brulicante conquista del territorio circostante.
Roma è fondamentalmente la storia di due donne. Una è Cleo (interpretata meravigliosamente dalla debuttante Yalitza Aparicio), una giovane donna di origini mesoamericane di Mixteco che lavora come cameriera per una famiglia di classe medio-alta a Città del Messico. La vita personale di Cleo sta iniziando a connettersi a quella della sua datrice di lavoro, Sofía (Marina De Tavira), la seconda donna della storia.
Cuarón mostra come la famiglia, sebbene abbastanza placida nel suo quieto vivere, sia messa gradualmente sotto pressione. Ci sono segni di tensione nella vita familiare. Il vialetto piastrellato del cortile, che viene mostrato pulito nei titoli di apertura, è abitualmente coperto dagli escrementi del tanto amato cane di famiglia. L’uomo di casa, Antonio (Fernando Grediaga), parcheggia la sua auto in questo corridoio con una cura stanca e svagata che allude alla sua infelicità.
Sua moglie Sofía accudisce quattro figli turbolenti, ma il vero lavoro è svolto da Cleo e dalla sua collega cameriera Adela (Nancy García García). Antonio continua ad andare via per quelli che presumibilmente sono viaggi di lavoro e Sofía stressata un giorno dice ai bambini che sarebbe una buona idea scrivere a loro padre, implorandolo di tornare a casa. Nel frattempo, Cleo deve spiegare al suo viscido fidanzato appassionato di arti marziali Fermín (Jorge Antonio Guerrero) che le è mancato il ciclo. È il preludio al disastro.
C’è un sentore di tragedia a questo punto del film, mischiato ad un sapore di commedia dell’assurdo e a un mistero sublime nei suoi intricati pezzi che lo spettatore ha il compito di ricomporre. Al centro di tutto c’è la meravigliosa interpretazione della Aparicio, che porta nel ruolo qualcosa di delicato e stoico.
Nel corso del film, sia Cleo che la famiglia subiscono sconvolgimenti estremi. Cleo deve affrontare le conseguenze di una relazione di breve durata con un individuo violento e rozzo. Il matrimonio di Sofia si sta sgretolando. Tuttavia, le scene più risonanti, quelle che vibrano a lungo nell’animo, non sono le beghe famigliari o le scene di Cleo che affronta il suo fidanzato, ma i momenti più tranquilli. Non puoi fare a meno di meravigliarti della mise en place minuziosamente dettagliata e della capacità di Cuarón di stipare enormi quantità di informazioni visive in quelli che inizialmente potrebbero sembrare banali quadretti quotidiani. Ma è proprio quel placido fluire della routine che costituisce l’anima di questa storia donandole un tono crepuscolare e disincantato. La scena finale, quando la famiglia fugge dalla città per concedersi una giornata al mare è il distacco definitivo dalla quotidianità, dai mali invisibili che ghermiscono la tranquillità degli uomini. I bambini che si raggruppano sulla spiaggia, quasi a formare una scultura di carne, sono la propaggine incantata di un sogno che languisce e perdura nella memoria, un debole incanto che tentiamo disperatamente di afferrare nella notte.
Titolo Originale: Roma
Grande atmosfera e luci, per il resto, mah, se avesse fatto un altro film come Gravity o i Figli degli uomini, lo avrei preferito.