Rosemary’s Baby
- John Cassavetes, Maurice Evans, Mia Farrow, Ralph Bellamy, Ruth Gordon, Sidney Blackmer, Victoria Vetri
- Roman Polanski
- Horror
- 12 Giugno 1968
Roman Polanski sbarca nel 1968 a Hollywood, con un discreto bagaglio di esperienza (tre film in Polonia e uno in UK) e soprattutto con la ferma intenzione di sfruttare la chance che gli si prospettava nel migliore dei modi. La Paramount lo aveva convocato per un progetto e il regista polacco si sentiva una specie di eletto dalla sorte. Era un uomo risoluto, acuto e tremendamente perspicace, ma al tempo stesso manteneva una visione fatalistica della vita, in cui l’uomo trovava il suo destino con entropico determinismo. Roman aveva già una rosa di testi candidati per il suo primo film americano. Ma il libro che scelse fu come una folgorazione tanto da intimargli un affrettato inizio delle riprese. Il libro in questione era Rosemary’s Baby di Ira Levin, un romanzo gotico-metropolitano in cui satanismo ed esoterismo si insinuavano tra i confortevoli muri dei grattacieli di New York e scuotevano le certezze metropolitane dei suoi occupanti. Polanski seppe subito scorgervi l’immediata potenza narrativa in quella storia un po’ scontata, proprio come Kubrick seppe annusare lo spessore intellettuale di Shining di Stephen King.
Per il cast, nel ruolo di protagonisti, furono chiamati due giovani attori quasi sconosciuti al grande schermo: Mia Farrow era nota soprattutto per la sua partecipazione al serial TV Payton Place, ma nel cinema non aveva mai lavorato, mentre John Cassavetes aveva anch’egli una lunga militanza televisiva ma quasi mai lo si era visto sul grande schermo. Si dice, e pare sia confermato, che per la parte maschile i produttori avevano già deciso per Jack Nicholson, astro nascente del momento. Ma quando Polanski lo vide disse che il suo fascino magnetico conferiva al personaggio di Guy un’aura troppo sinistra: la qual cosa, almeno nelle prime scene del film, non doveva accadere: così fu scartato Nicholson. Per la location si optò per un vecchio e inquietante palazzo a pochi passi dal Central Park: il Dakota Building. Polanski lo volle per il suo senso di malessere e decadenza che traspirava da ogni singolo mattone. E’ curioso notare che in quell’edificio nel 1980 sarebbe andato a viverci John Lennon e vi avrebbe barbaramente trovato la morte due anni dopo.
La storia è incentrata sulla giovane coppia Guy e Rosemary Woodhouse. I due affittano un appartamento in centro a New York e mentre lui si dedica al lavoro di attore lei accudisce la casa. Ben presto la coppia sarà avvicinata da due strambi ma gradevoli vecchietti, i coniugi Roman e Minnie Castevet, loro vicini di casa. Comincerà un’amicizia molto gradita a Guy, che subisce il fascino oratorio di Roman, ma un po’ scomoda per Rosemary che gradualmente si sentirà sempre più a disagio per le attenzioni rivoltele da Minnie. Una notizia verrà a spezzare la tranquilla routine dei Woodhouse: Rosemary è incinta. Il concepimento avviene in un momento in cui lei giace svenuta, inizia così un crescendo di fatti inquietanti che matureranno la consapevolezza in Rosemary di vivere accanto ad una coppia dedita alla stregoneria e al culto di Satana. Da qui inizierà la sua disperata lotta per strappare il nascituro dalle grinfie di quella gente.
Vi sono diverse scene che hanno acquisito immortalità e fama nel corso del tempo. Ad esempio quella in cui Rosemary scompone il titolo di un libro per tentare di anagrammarlo e per farlo usa le lettere dello Scarabeo: la cinepresa segue i suoi tentativi e sembra quasi partecipare al suo sforzo speculativo. Un’altra famosa scena è quella in cui Rosemary corre in mezzo al traffico infernale di New York, al nono mese di gravidanza. Tutte le macchine si fermano quasi per miracolo al suo passaggio: ancor più incredibile è pensare che questa scena, per suggerimento della stessa Farrow, fu girata improvvisando, senza prendere accordi con nessun autista presente in scena. Polanski le disse calmo: “tranquilla Mia, nessuno metterebbe sotto una donna incinta!” E così è stato in effetti. Un’altra icona fulminante del film è la scena finale in cui Rosemary fa irruzione nell’appartamento dei Castevet brandendo un coltello da cucina: la cinepresa la segue da dietro, di soppiatto, quasi con muta deferenza, mentre la ragazza avanza verso il cuore dell’abominio a passi incerti. La scena finale di Rosemary’s Baby è un miracolo di equilibrio: da una parte Rosemary che brandendo un coltello si affaccia sull’abisso scoperchiandone i terrificanti recessi; dall’altro il collegio dei satanisti, riunito in adorazione del bambino, che accoglie la madre in un silenzio intriso di indecisione e timore per la sorte del bambino. La coesistenza di queste due forze: tensione e acquiescenza genera una sorta di livellamento emotivo in apertura. Poi Rosemary si avvicina al terribile giaciglio e ne scosta il sipario. L’orrore di Rosemary alla vista del neonato è l’orrore dell’Uomo di fronte al Soprannaturale, all’Indicibile. Quando Roman la incalza dicendole che il bimbo ha gli occhi del padre per Rosemary si apre una disperazione afona, devastante. Polanski enfatizza la percezione psicologica della realtà non mostrando allo spettatore il bambino, al contrario mostrando il viso terrorizzato di Rosemary. La domanda di Rosemary: “Che cosa gli avete fatto?” mette violentemente in primo piano il tema della percezione, dissolvendo il piano della realtà dagli occhi di Guy agli occhi gialli di Satana, sopra di lei durante la scena dello stupro. E’ una sorta di transfert che dal taffetà nero della culla invade la madre rendendola cosciente di tutto, finalmente. E non c’è orrore più grande per lei.
L’opera presenta diversi sostrati in cui ci si può calare, ma due di essi possono essere individuati come duplice chiave di lettura per scardinarne la semantica. Dapprima vi si scorge il tema dell’alienazione metropolitana e di come questa alienazione si traduca in mistero e occulta angoscia tra le mura di casa. Una graduale perdita di ogni punto di riferimento proprio nel luogo per antonomasia che dovrebbe proteggerci e accoglierci. Il viso di Rosemary, in questo senso, dapprima disincantato e ilare, poi pallido ed emaciato, è la metafora più pregnante per delineare questa angoscia sorda, questa paura strisciante che si fa largo brano a brano. Vi è poi naturalmente il tema esoterico: inizialmente balugina tra le righe, poi si rafforza creando un clima di costante tensione nello spettatore che viene reso edotto dei rituali, degli interpreti, degli oggetti magici, dei poteri oscuri. Il tema del soprannaturale viene calato in scena, con grande intuizione semiotica da parte di Polanski, con la forza delle immagini, che via via si fanno più possenti, più esplicite, più cariche di significati. Dapprima vi è quello strano ciondolo che i due diabolici vecchietti regalano a Rosemary, poi i quadri inquietanti nel loro appartamento, quindi il libro “All of them witches” colmo di illustrazioni di streghe e stregoni, che viene inviato a Rosemary per metterla in guardia contro i due, infine la culla drappeggiata di nero dove riposa il bambino, con la croce capovolta appesa. In quest’opera aleggia il potere iconografico che in qualche modo fagocita il logos e lo seduce ai suoi voleri. Una malìa per immagini che è quasi impossibile razionalizzare, come accade spesso nel risveglio quando ci sorprendiamo a cercare disperatamente di fissare nella mente un’immagine terribile e colma di arcano significato balenata in sogno, ma che in qualche modo ci sfugge come vapore tra le mani.
notevole. La coppia di vecchi ricconi gentili e diabolici sono gli stessi vecchi di Mulholland Drive, vengono da qui.