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Il ritrovamento di un orecchio umano da parte di uno studente in un campo vicino a casa dà inizio ad un’inquietante vicenda dai forti sapori simbolici. L’orecchio come metafora dell’esperienza uditiva è il tema con cui Lynch giocherà per tutto il film ad iniziare dalla canzone “Blue Velvet” di Bobby Vinton, passando per gli angoscianti rumori di fondo che qua e là screziano il film di un’atmosfera asfittica e brulicante, per finire alla suadente e sensuale voce della protagonista che come una sottile malìa esercita un fascino ineludibile per chi l’ascolta. L’indagine sull’orecchio mozzato porta Jeffrey a casa di Dorothy Vallens, maliarda cantante di Night Club. Sarà coinvolto suo malgrado in una storia dai contorni grotteschi dove realtà e finzione sono avvinte nel medesimo territorio inesplorato. David Lynch inquieto e conturbante si spinge nel reticolo underground che scorre come una linfa sotterranea sotto la città, intorno a noi. Una zona invisibile dove avvengono fatti che sembrano vivere di una vita parallela e inconoscibile rispetto al mondo esterno. Ne nasce un’opera oscura che parte dalla luce della superficie per raggiungere i più tenebrosi recessi dell’animo umano. Un ricordo grato al compianto Denis Hopper qui coinvolto in una parte davvero sinistra, nei panni di un losco e violento figuro che comparirà più volte nell’intreccio: un’interpretazione di mestiere, che da lustro all’intera opera. Tutto l’impianto fotografico del film è finalizzato ad ottenere un effetto onirico alimentando un’atmosfera perennemente incerta, balbettante, sfocata.

Scena meravigliosa quella in cui Jeffrey, nascosto in un armadio, spia il rientro a casa di Dorothy subendone il fascino sinistramente erotico e finendo per essere scoperto dalla donna. Brandendo un coltello Dorothy sparge su di lui la sua morbida sensualità irretendolo in un gioco in bilico tra Eros e Thanatos, tra nivea pelle e sangue scarlatto.

Altra scena memorabile è quella in cui una mielosa canzone di Roy Orbison diviene perno centrale di una sofisticata architettura narrativa come quella di Blue Velvet di David Lynch. Come è possibile si chiederanno alcuni? La scena, divenuta un vero cult nel cult, non è altri che l’affermazione dell’estetica degli opposti così paradigmatica in Lynch. E così i versi zuccherosi di una canzonetta assumono un alone sinistro sul viso rapito di un feroce personaggio come Frank Booth.

Una scena che ferma per un istante il meccanismo semantico dell’opera per focalizzarsi sui versi di Orbison:

A candy-colored clown they call the sandman
Tiptoes to my room every night
Just to sprinkle stardust and to whisper
“Go to sleep. Everything is all right.”

Un clown color caramella che chiamano Sandman. Un momento. Ma è lo stesso Sandman usato nelle filastrocche per far addormentare i bambini, lo stesso essere che sussurra nell’orecchio più pur: “vai a dormire ora. E’ tutto a posto.” Una figura mitopoietica con tutto il suo inquietante retaggio iconografico. Ma non abbiamo tempo di mettere a fuoco che la canzone entra nel vivo:

In dreams I walk with you, in dreams I talk to you
In dreams you’re mine, all of the time
We’re together in dreams, in dreams

Eccolo qui il senso ultimo della scena, il bandolo del pasticciaccio, come lo avrebbe chiamato Gadda. Il Sogno si fa unico depositario del linguaggio, unico vettore di comunicabilità. Ultima indefinibile istanza di contatto con una donna perduta, con una realtà dissolta e rovesciata con gesto disperato in un tremolante piano onirico.

Titolo originale: Blue Velvet

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