La direzione degli attori nel cinema di Tarantino

Il cinema americano è riconosciuto  come un cinema dei generi e non c’è da stupirsi se guardando la filmografia dello sceneggiatore e regista Quentin Tarantino troviamo film che spaziano dal gangster movie al film di guerra, dal western al horror, da film sulle rapine a ricostruzioni allucinate della biografia di serial killer americani. Dalla fine degli anni 80 ad oggi i suoi film e il suo stile si sono imposti come nuovo linguaggio fino a trasformare il nome del regista in un aggettivo con cui taggare nuovi prodotti, un cinema tarantiniano.

Il cinema di Tarantino, in questi anni, è stato spesso associato a un cinema violento inducendo a soffermarsi su quest’ultimo aspetto e focalizzarlo come componente primaria dei suoi film. 

Tarantino è da sempre un onnivoro di cinema e, come ha più volte affermato in diverse interviste, ama e adora i film “slasher” e horror di vario genere. Non è un caso, infatti, che abbia conosciuto Lawerce Bender dopo aver visto Intruder, in cui quest’ultimo ha esordito come produttore. Ma associare unicamente la violenza alla cinematografia del regista è un grave errore oltre che un’affermazione in parte lontana dalla realtà dei fatti.

Tarantino rappresenta una delle menti più brillanti del cinema moderno; trascendendo il citazionismo, ha preso tutta la sua conoscenza cinematografica, la sua esuberanza e le ha inserite nelle sue sceneggiature, dando vita a personaggi che oggi sono punti di riferimento nella storia del cinema mondiale.

Questo grazie a ottime sceneggiature ma soprattutto alla sua capacità di portare la performance degli attori a strumento di spettacolarizzazione, oltre che elemento di sviluppo narrativo.

Prima di addentrarci nell’analisi di come Tarantino porta avanti il lavoro con gli attori bisogna chiarire un aspetto, a mio avviso, fondamentale nella sua cinematografia, ovvero la scrittura. 

Quello di Tarantino è uno di quei casi in cui scrittura e messa in scena vanno a pari passo: a inizio carriera Tarantino riuscì a vendere due sceneggiature che furono successivamente girate da Tony Scott e Oliver Stone. Non contento dei film che ne sono derivati e delle modifiche apportate ai “suoi” personaggi, si ripromette di scrivere solo sceneggiature da lui realizzabili. Così Tarantino scrive la sceneggiatura di Resevoirs Dog con la quale riesce a partecipare al Sundance Institute e tornato a Los Angeles trova la collaborazione del già citato Lawrence Bender e come si dice, il resto è storia. 

Da questo piccolo excursus biografico si può facilmente capire perché all’interno delle sue sceneggiature troviamo riferimenti a come verranno poi riprese le scene, a cambi di punti di vista e altre componenti che sono tipici della regia e non andrebbero mai scritte in fase di sceneggiatura. Tarantino ha una sua idea di cinema e un controllo della messa in scena che parte dalla scrittura e arriva come un unico processo alla regia. Non sono due entità separate bensì un unico grande processo creativo. Questo aspetto lo porta ad avere un controllo magistrale e assoluto dei personaggi lasciando all’attore ben poco spazio per libere interpretazioni.

A testimonianza di ciò possiamo prendere in esame un’intervista all’attore Channig Tatum durante il Jimmy Kimmel Show, il quale ha dichiarato che Tarantino “fa tutto il lavoro per te” presentandoti il personaggio e tutto il suo background, togliendo così all’interprete la possibilità di costruirsi il personaggio e di virare verso sentieri non previsti dal regista. Un’altra testimonianza è l’intervista rilasciata da Jamie Foxx. L’attore ha confessato ai microfoni di Howard Stern come Tarantino sia un “tiranno”, di come egli pretenda che le parole della sceneggiatura vengano rispettate alla lettera. Foxx racconta di come Tarantino, dopo il primo ciak dell’attore, lo abbia ripreso dicendogli di dimenticare ogni cosa, lasciare tutto quello che aveva in mente, e non solo, fuori dal set e lasciarsi modellare da lui. Nessuno spazio per interpretazioni personali. Ma si tratta veramente di tirannia?

Attore come marionetta: l’esempio Pulp Fiction

Il controllo assoluto che Tarantino detiene sui suoi personaggi deriva dal controllo della messa in scena e dal punto di vista sempre ammiccante allo spettatore. Tarantino è forse il primo spettatore di se stesso e questo porta il sé regista a cercare un grande complice nel processo creativo: il pubblico. La spettacolarità del suo cinema e l’attenzione al pubblico che ne consegue sono un punto saldo del suo sguardo e questo naturalmente si estende anche sugli attori, portandoli a interpretare personaggi ultra-definiti e non lasciando spazio a sfaccettature e intenzioni di alcun tipo.

In primis, osservando un qualsiasi personaggio di Tarantino ritroviamo in ciascuno di essi la sua stessa logorrea e, accostando qualunque dialogo dei personaggi alle numerose sue interviste che si sono accumulate negli anni, possiamo trovare grandi similitudini non solo per la tipologia di linguaggio, ma anche nella cadenza e nelle pause. Tarantino gesticola e si muove con irrefrenabile energia e così i suoi personaggi.

Se prendiamo in esempio la scena in cui Jules, il personaggio di Samuel L. Jackson in Pulp Fiction, recita il famoso monologo biblico, ecco che notiamo che delle 93 inquadrature di cui è formata la sequenza nessuna di essa accenna ad un movimento di camera ad eccezione di leggere panoramiche, ottenendo una sequenza prettamente statica.

Ma la dinamicità della sequenza è data, oltre che da un montaggio serrato e dalla valanga di parole che vengono dette, anche dalla performance degli attori che, come in un balletto, si muovono in ogni inquadratura dando dinamicità e movimento ad una scena altrimenti statica. Anche nelle scene più strette le teste si voltano o gli occhi si sgranano. Quando il povero Brett se ne sta impaurito e pietrificato sulla sedia a fissare Jules, dietro di lui John Travolta si muove e fuma. Quando il regista riprende la scena nella sua totalità e nessuno ha motivo di muoversi, in quel preciso istante ecco che il fumo di una sigaretta, fumata sempre da Travolta ora fuori campo,  entra in campo da sinistra della camera volteggiando nell’inquadratura. 

Il cinema, soprattutto quello made in USA, è azione e quando le chiacchiere prendono il sopravvento come nei film di Tarantino allora la performance attoriale deve accompagnare il parlato come la danza con la musica.

È così che dopo 2 ore di film, quando in chiusura Samuel L. Jackson ripropone lo stesso monologo e noi sappiamo perfettamente a cosa va incontro Tim Roth, ecco che Tarantino congela la scena e si ferma. Sguardi e primi piani degni di Sergio Leone, gli attori sono immobili e le inquadrature passano dal campo medio, che definisce il mexican stand-off, al primissimo piano di Samule L. Jackson e lo spettatore che ha abituato lo sguardo a immagini  e personaggi sempre in movimento, non può non essere estremante catturato dalla scena, dalla bravura di Jackson e dall’intensità del monologo. 

Tarantino conosce bene le regole del gioco, le ha imparate a suon di pomeriggi e notti a divorare film di ogni tipo. Tarantino non segue le regole, prende stereotipi e li rende suoi.

Pulp Fiction è un film che si muove su tre episodi intrecciati tra loro, prende i cliché più usati in tutta la narrativa e la cinematografia poliziesca. La storia di Vincent (Travolta) e Mia (Thurman) e quella del pugile Butch (Willis) sono tra le situazioni più sfruttate nel cinema. Meno usuale è la storia di Jules (Jackson) e della valigetta nella quale invece di lasciare i sicari e far proseguire la storia, Tarantino sceglie di passar la mattinata con loro e indugiare. In questo intreccio il regista prende i personaggi e li destruttura della loro classicità rendendoli burattini buffi in situazioni buffe.

Persone poco raccomandabili che però parlano, vivono e mangiano nella quotidianità. Il gangster non è più quello duro tutto di un pezzo, tenebroso e infallibile del cinema classico, non fa grandi colpi e non cerca la riscossa o il successo di Piccolo Cesare ma, come suggerisce la lezione impartita dallo scrittore Ed Bunker, è delinquente comune che fa cose drammaticamente straordinarie.

È così che troviamo gangster parlare di Madonna e musica all’inizio di Reseivoirs Dog o di massaggi ai piedi come in Pulp Fiction o gangster filosofi come Madsen di Kill Bill o cowboy che vanno dalla mamma, sempre Madsen in Hatefull Eight. Con Tarantino i personaggi del cinema di genere sono adattati alla vita reale creando uno scontro tra il senso comune di tutti i giorni ed eventi straordinari.

No ruoli, bensì maschere

L’attore non dà vita ad un ruolo ma diviene maschera. Tarantino <<enfatizza il gioco dell’attore per mostrarne la sua centrale dimensione di maschera>>1. Ma queste maschere non sono i personaggi tormentati dei Chandler, Woolrich, Thompson.

Tarantino fa compiere agli elementi del filone letterario e cinematografico dei gangster una svolta netta: li svilisce, gli toglie ogni resto di negativa eroicità, li affoga in uno stagno di banalità allegra e cretina.2 Altro esempio di maschera lo possiamo trovare in Bastardi Senza Gloria, dove in un contesto e in una messa in scena di film bellico, Tarantino tratta il tutto come un western agreste calandoci dentro una manciata di cow-boy. Se un figlio scorge un estraneo provenire dalla profondità di campo, mentre un uomo assesta pesanti colpi di accetta su un ceppo al centro di un ampia proprietà terriera, il pensiero di ogni amante del western non può non andare all’arrivo di Shane ne Il cavaliere della valle solitaria del 1953.

Ma in Bastardi Senza Gloria la situazione si ribalta, perché Hans Landa non è un eroe solitario, un cavaliere errante, bensì un gerarca nazista. Il personaggio/maschera ha il ruolo di sovvertire gli equilibri all’interno dell’ambito in cui è estraneo: il suo scopo è quello di forzare quella presunta inviolabilità che fino a quel momento vigeva sulla casa LaPadite.3 Allo stesso modo, il pistolero senza nome interpretato da Eastwood in Per un Pungo di Dollari rompe gli equilibri nel villaggio in cui si svolgerà poi l’intera vicenda.

Un principio di stratificazione che permea il cinema di Tarantino, un cocktail di generi che si fondono in un macro-genere, un film tarantiniano in cui gli attori non possono non essere che maschere al servizio dell’occhio della macchina da presa. Una situazione quasi teatrale.

Bruce Willis, parlando di Tarantino, ha dichiarato di aver l’impressione di trovarsi come a teatro, dove nessuno si sogna di cambiare una battuta per adattarla al personaggio. L’attore si deve far creta nella mani di Tarantino che lo modella a suo piacimento e, mentre i suoi attori hanno poco spazio per recitare autonomamente, avviene il contrario per i personaggi dei suoi film. Nei film di Tarantino si recita, i suoi film sono opere in cui in una maniera o nell’altra si prevede un inganno. Pulp Fiction fa da apri pista a questa tendenza: Jules e Vincent prima di entrare nell’appartamento di Brett per la valigetta, dopo una lunga conversazione in piano sequenza, si dicono “Entriamo nei personaggi”. Concetto che viene meglio chiarito in Django Unchained, quando il dr. Schultz insegna al protagonista a “fingersi qualcun altro”.

Tim Roth interpreta un agente sotto copertura in Resevoirs Dog e in Hatefull Eight finge di essere un posato inglese ed è proprio nel suo ultimo film che Tarantino si scatena mettendo in scena otto personaggi in una specie di teatro, in cui la metà di essi recita una parte. Un cinema di bugie, bugiardi e inganni che non sono mai rivolti verso lo spettatore il quale risulta essere un osservatore onnisciente. Attori che recitano personaggi che fanno gli attori a loro volta. Tarantino non inganna il pubblico, ma si diverte con esso, facendo sì che i personaggi cullino un segreto che solo lui e lo spettatore custodiscono.

Beatrix Kiddo (Thurman) viene ammonita da Bill (Carradine) dichiarando che la ragazza non potrà fingere per sempre di recitare una parte. In Hatefull Eight succede l’opposto, Jackson è costretto a mentire per farsi strada nel west post-secessione. In Bastardi Senza Gloria Shoshanna recita un ruolo per un fine ben preciso: uccidere.

Così come fa Stuntman Mike in Death Proof. Recitazione per questioni di vita o di morte. E solo i pessimi attori sopravvivono, come Aldo Raine o Beatrix Kido. Una visione cinematografica, e di conseguenza una direzione attoriale, quella di Tarantino a cui non importa né del realismo e né del fantastico, ma solo del Cinema. Del suo Cinema fatto di gente brutta, sporca e cattiva che vive ai margini della società.

Teatralità degli attori: l’esempio Hatefull Eight

Precedentemente abbiamo velocemente accennato a teatro e teatralità della recitazione degli attori. Per poter meglio osservare questo fenomeno, tenendo anche ben in mente quanto affermato sull’utilizzo della performance come pratica a sottolineare il carattere spettacolare e performativo del cinema, prendiamo ad esempio il suo ottavo film Hatefull Eight. Il film è stato girato in un glorioso 70 mm utilizzando le lenti che erano state usate per il film Ben-Hur. La domanda che viene da chiedersi è se l’utilizzo di questa particolare tecnologia è veramente utile per un film che è prettamente teatrale e girato per il 90% in interni. Qualche anno prima P.T. Anderson aveva già sfruttato la tecnologia per The Master. Perché allora l’esperienza di  Tarantino è trattata come se fosse il primo esperimento nel suo genere?

Prima di tutto partiamo col chiarire che con il 70 mm si intende il tipo di pellicola usata per proiettare film girati in 65mm, che prima del 70 mm IMAX (che è a scorrimento orizzontale) era il formato più grande. Su queste pellicole, tra la fine dei ’50 e inizio ’80, si girava con lenti e cineprese Super Panavision 70 in formato 2,35:1, quello comunemente definito wide-screen. Film come The Master sono stati girati nello stesso modo utilizzando una versione aggiornata della stessa tecnologia. Il metodo di ripresa usato da Tarantino è l’Ultra Panavision 70,  che permette di girare in 2,76:1 sfruttando così le più larghe inquadrature possibili.

Grazie all’utilizzo di tale tecnologia Tarantino crea esterni mozzafiato, che comunque non rappresentano la parte principale della bellezza della sua messa in scena. La vera sfida stava nel trasformare l’emporio di Minnie in un palco di un grande teatro e nel dare ad ogni angolo di tale emporio il suo significato, e così è stato. Il modo in cui più della metà delle inquadrature è costruita permette di avere quasi sempre uno o due personaggi sullo sfondo, ai lati, fermi, a non fare praticamente niente se non stare seduti e bere. Come a teatro il palco è sempre condiviso, gli attori in scena esistono anche quando non sono al centro dell’attenzione e sta a noi decidere su chi concentrare lo sguardo.

Se a sinistra c’è Tim Roth, al centro Kurt Russel e a destra Samuel L. Jackson non sarà mai possibile guardarli tutti nello stesso tempo, soprattutto al cinema. Tarantino ha sempre mostrato attenzione verso i dettagli e in questo film più che mai, complice una tecnologia che esalta il quadro, ma non bisogna dimenticare che la recitazione da lui imposta ai suoi attori, è la vera artefice della riuscita del film. In questo film siamo all’apoteosi del Tarantino direttore e quanto detto fino ad ora viene magnificamente oggettivato in ogni quadro prodotto. La performance diviene oggettivazione della messa in scena e della spettacolarità, almeno la metà degli odiosi otto recita un personaggio che recita una parte a sua volta e tutti e otto sono una maschera, l’attore interpreta un archetipo, un cliché che viene destrutturato dai dialoghi che assieme al 70mm impongono la loro teatralità.4 

La direzione degli attori è collegata a doppio nodo con la scrittura delle sceneggiature. Il regista crea personaggi completi, a tutto tondo e li consegna agli attori ai quali cede poco spazio per interpretazioni personali. L’attore, come una marionetta nelle sue mani, deve attenersi ad un ruolo ben scritto e preciso, deve sottomettersi ai dialoghi e farsi modellare. La performance dell’attore è un ballo a due con il regista la cui ombra appare in quasi tutti i suoi personaggi e nei dialoghi che essi compiono. Gli attori di Tarantino non interpretano dei ruoli, ma diventano maschere calate sul palco/schermo che il regista ci offre e come tale si muovono nella messa in scena.

La loquacità dei suoi personaggi è un ulteriore segno della loro teatralità e allo stesso tempo del controllo totale da parte del regista. Loquacità quasi liquida che come un fiume in piena ci travolge e asseconda quel montaggio non lineare che lo caratterizza, costringendo lo spettatore a lasciarsi trasportare dalla corrente.

Nei suoi film troviamo attori che recitano personaggi che recitano a loro volta ingannando se stessi o gli altri, ma mai lo spettatore che diviene complice del regista, il quale viene trattato con il massimo rispetto e a cui viene regalata la massima spettacolarità possibile. Si pensi alla pausa di 15 minuti imposta dallo stesso Tarantino per Hatefull Eight:  dopo questa pausa il film riprende con la voce narrante (quella dello stesso regista nella versione originale), che richiama lo spettatore all’attenzione persa dopo l’intervallo, rompendo la quarta parete e prendendo per mano lo spettatore per accompagnarlo all’interno dell’Emporio di Minnie.

Dopo questa analisi sulla recitazione, siamo ancora in grado di nascondere la maestria e il cinema di Quentin Tarantino dietro vuota e superficiale definizione di “violenza”? 

1 P. Bertetto Azione! come i grandi registi dirigono gli attori, Maximum Fax p.31

2 Cfr. Bruno Fornara Chimica Inorganica, Cineforum n. 339

 3 Cfr. Giampiero Frasca L’universo in una stanza, Cineforum 489

 4 Autori Vari, Otto sotto un Tetto: la recensione (in otto) di Hatefull Eight, I 400 Calci-Manuale di cinema da combattimento, Magic Press 2017

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