“[…] Ma questa lettera è lunga signor presidente, ed è tempo di concludere. Accuso il luogotenente colonnello de Paty di Clam di essere stato l’operaio diabolico dell’errore giudiziario, in incoscienza, io lo voglio credere, e di aver in seguito difeso la sua opera nociva, da tre anni,con le macchinazioni più irragionevoli e più colpevoli. Accuso il generale Marcire di essersi reso complice, almeno per debolezza di spirito, di una delle più grandi iniquità del secolo. Accuso il generale Billot di aver avuto tra le mani le prove certe dell’innocenza di Dreyfus e di averle soffocate, di essersi reso colpevole di questo crimine di lesa umanità e di lesa giustizia, per uno scopo politico e per salvare lo stato maggiore compromesso. Accuso il generale de Boisdeffre ed il generale Gonse di essersi resi complici dello stesso crimine, uno certamente per passione clericale, l’altro forse con questo spirito di corpo che fa degli uffici della guerra l’arcata santa, inattaccabile. Accuso il generale De Pellieux ed il comandante Ravary di avere fatto un’indagine scellerata, intendendo con ciò un’indagine della parzialità più enorme, di cui abbiamo nella relazione del secondo un imperituro monumento di ingenua audacia.. accuso i tre esperti in scrittura i signori Belhomme, Varinard e Couard, di avere presentato relazioni menzognere e fraudolente, a meno che un esame medico non li dichiari affetti da una malattia della vista e del giudizio. Accuso gli uffici della guerra di avere condotto nella stampa, particolarmente nell’Eclair e nell’Eco di Parigi, una campagna abominevole, per smarrire l’opinione pubblica e coprire il loro difetto. Accuso infine il primo consiglio di guerra di aver violato il diritto, condannando un accusato su una parte rimasta segreta, ed io accuso il secondo consiglio di guerra di aver coperto quest’illegalità per ordine, commettendo a sua volta il crimine giuridico di liberare consapevolmente un colpevole. […]”

Queste sono le parole con cui il grande scrittore francese Emile Zolà concluse la sua lettera aperta indirizzata al Presidente della Repubblica e pubblicata sul giornale L’Aurore il 13 gennaio 1898. Il caso Dreyfuss viene montato nel Gennaio 1895, a pochi mesi dalla nascita del cinema. E mentre i fratelli Lumiere presentano le loro vedute al Gran Cafè del Boulevard de Capucines, la capitale francese freme per lo scandalo Dreyfuss. Le strade del cinema e della vicenda Dreyfuss si sono incrociate ancora, ma questa volta sullo schermo con il film Emilio Zolà di William Dieterle e con L’affare Dreyfuss di Josè Ferrer. Ed ora per la quarta volta settima arte e fatto di cronaca si intersecano nuovamente per mano di Roman Polanski che, con il film L’Ufficiale e la Spia, riporta alla luce il caso Dreyfuss. Con la lettera sopra citata Polanski fa sua la causa Dreyfuss e realizza un film il quale risulta essere la sua lettera aperta verso un opinione pubblica e al governo americano che dal 1977 gli “da la caccia” per via delle accuse di violenza sessuale che pendono sul suo capo.

Nel cortile dell’École Militaire di Parigi, Georges Picquart, un ufficiale dell’esercito francese, presenzia alla pubblica condanna e all’umiliante degradazione inflitta ad Alfred Dreyfus, un capitano ebreo, accusato di essere stato un informatore dei nemici tedeschi. Al disonore segue l’esilio e la sentenza condanna il traditore ad essere confinato sull’isola del Diavolo, nella Guyana francese. Il caso sembra archiviato. Picquart guadagna la promozione a capo della Sezione di statistica, la stessa unità del controspionaggio militare che aveva montato le accuse contro Dreyfus. Ed è allora che si accorge che il passaggio di informazioni al nemico non si è ancora arrestato. Da uomo d’onore quale è si pone la giusta domanda: Dreyfus è davvero colpevole?

Un film lineare che si srotola senza troppi fronzoli, quasi sottovoce. La scelta di evitare grandi costruzioni stilistiche si rivela la forza del film, che prende il suo respiro dalla vicenda e dalla sceneggiatura abilmente costruita dallo scrittore Robert Harris già autore del romanzo da cui è tratto il film.

Costumi e Fotografia operano ad una ricostruzione impressionista di Parigi.

Il film fotografato da Paweł Edelman riprende i colori e le luci della Parigi impressionista. Polanski realizza così un ottimo film dal gusto classico, da inquadrature semplici ma efficaci. Così come semplice è la recitazione, sempre composta anche nei momenti più drammatici. Polanski riprende gli attori con un incedere quasi teatrale. Parola d’ordine di questo film è massima classicità e linearità. Ma in queso perfetto classicismo a mio avviso pecca il finale dove, al chiudersi della vicenda giudiziaria, il regista sembra non saper concludere degnamente il film e lo lascia scorrere da sè. Non cedendo il giusto spazio al personaggio di Henry (interpretato dal bravissimo Grégory Gadebois), il quale svolge un ruolo primario nella risoluzione del caso. Lo spettatore non ha tempo di affezionarsi al personaggio e conseguentemente non coglie l’importanza degli eventi finali e del conflitto che ha con il protagonista.

La pellicola è stata presentata allo scorso festival di Venezia dove non sono mancate le polemiche, le quali non hanno interferito con la scelta dei giurati, che hanno deciso di premiarlo con il premio con ben tre riconoscimenti: Leone d’argento – Gran Premio della Giuria , Premio FIPRESCI al miglior film in concorso (ogni anno, a partire dal 1948, alla Mostra del Cinema di Venezia alcuni membri della FIPRESCI, federazione internazionale della stampa cinematografica, assegnano un premio a quello che loro ritengono il miglior film, per sostenere il cinema più “rischioso, originale e personale”) e GREEN DROP award (viene assegnato al film – tra quelli in gara nella selezione ufficiale – che “meglio abbia interpretato i valori dell’ecologia e dello sviluppo sostenibile, con particolare attenzione alla conservazione del Pianeta e dei suoi ecosistemi per le generazioni future, agli stili di vita e alla cooperazione fra i popoli”).

Un film che nonostante i difetti si guarda con piacere creando una bella esperienza di cinema. Polanski ci porta in quel tipo di cinema che serve sempre di più in questo momento storico, dove il falso sembra incedere prepotentemente sulla verità e che ci ricorda che ogni tanto dovremmo anche noi prendere esempio da Picquart o da Zolà e aver il coraggio di schierarsi e accusare.

Alessandro Nunziata

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