Recensione La Ruota Delle Meraviglie
In un intervista Quentin Tarantino disse che, lui in quanto regista di cinema, avrebbe fatto al massimo dieci film per poi andare in pensione. Motivazione? Secondo il buon Tarantino molti registi, nonostante le brillanti carriere, arrivati oltre i sessanta/settanta tirano fuori qualsiasi trovata gli viene in mente, con la conseguenza di un calo artistico/tecnico lasciando di se un pessimo ricordo e pessimi film allo spettatore. Ora quando Tarantino a fatto questa intervista ancora non erano usciti Wolf of Wall Steet o Bridge of Spy ma, fatte le dovute eccezioni e i giusti distinguo, devo ammettere che il vecchio Quentin ha ragione. Capita molto spesso di vedere una grande star del cinema che si affievolisce inutilmente in film mediocri, un esempio su tutti Robert De Niro che passa dai capolavori come Novecento di Bertolucci o Il Padrino Parte II a film discutibili come Nonno Scatenato o Il Grande Match dove addirittura si trova a scimmiottare se stesso. Ma sopratutto Tarantino mi ha fatto pensare al caro e vecchio Woody Allen. Lui meglio di tutti incarna questa descrizione.
Siamo abituati ormai al super prolifero Woody che in silenzio e in sordina tira fuori un film all’anno o anche di più. Per la precisione non salta un anno dal 1982, quando usci con Una commedia sexy in una notte di mezza estate diventando così un appuntamento fisso da non saltare. Andare a vedere Allen è diventato come guardare Una poltrona per due alla vigilia di Natale.
Questo lungo preambolo per farvi capire con quale spirito sono entrato in sala per guardare il nuovo film di Allen La Ruota delle Meraviglie, ma a dispetto delle mie aspettative mi sono trovato davanti ad un ottimo Woody Allen capace di stupirmi in barba a quello che disse Quentin.
Il film La Ruote delle Meraviglie è la quarantanovesima pellicola firmata dal cineasta newyorkese per Amazon Studios, che per questa sua pellicola torna nella tanto adorata New York, focalizzandosi questa volta in uno dei luoghi simbolo della Grande Mela: Coney Island.
Il film è un period dramma (ovvero quei film in cui si mescolano due generi: lo storico e romantico, drammatico,ecc.), genere in cui Allen ci aveva già dimostrato di essere a suo agio.
Ambientato nel 1950, Allen ci narra le vite di quattro personaggi che si intrecciano ai piedi della celebre ruota panoramica costruita negli anni venti: quella dell’imbronciata e malinconica Ginny (Kate Winslet), ex attrice emotivamente instabile, ora cameriera presso un modesto ristorante di pesce; di suo marito Humpty (Jim Belushi), rozzo manovratore di giostre; del giovane Mickey (Justin Timberlake), un bagnino di bell’aspetto che coltiva aspirazioni da commediografo; e della ribelle Carolina (Juno Temple), la figlia che Humpty non ha visto per molto tempo e che ora è costretta a nascondersi nell’appartamento del padre per sfuggire a un gruppo di spietati gangster che le dà la caccia.
Film dall’ampio respiro teatrale per scrittura, i dialoghi, si pensi al bellissimo monologo finale della Winslet, per caratterizzazione dei personaggi come, ad esempio il giovane Mickey che lavora come bagnino simile ad un vitellone romagnolo con aspirazioni da drammaturgo.
In questa pellicola Allen riprende con Kate Winslet il personaggio di Cate Blanchett del magnifico Blue Jasmine ma qui in chiave proletaria e riprende i temi a lui cari sopratutto nelle sue ultime produzioni: la giostra della vita, qui la location diventa non solo metafora del film, ma anche il comprimario nascosto nel film; il libero arbitrio contro il destino; la colpa; l’impossibilità di una vera redenzione; il confronto con i propri fallimenti e col peso delle scelte compiute.
Come in una giostra, le vicende dei quattro protagonisti girano si intrecciano e ruotano, il triste dramma del quotidiano ridipinto dalle magnifiche luci di Vittorio Storaro che solo per il suo magnifico lavoro vale il prezzo del biglietto.
Una Allen perfetto per le luci, per la regia, la scrittura, i personaggi e l’interpretazione degli attori che ci fa assaporare la magnifica coppia Winslet/Belushi, per il jazz, per un film che ha il ritmi e tempi che esulano dal 99% della produzione mediocre che abbiamo al giorno d’oggi.
Allen qui è capace di riportarci a teatro con il cinema. Di farci amare il cinema perché bello e differente dal teatro e in barba a Quentin Tarantino un Allen maturo che speriamo duri ancora qualche stagione.
di Alessandro Nunziata
regista/proiezionista/cinefilo/nerd