The Florida Project, ovvero la fatiscenza dietro la patina.
Per quanto mi riguarda, e come spesso mi accade per vicissitudini in atto che non sto a spiegare, mi è capitato di impattare in questo film con estremo ritardo, circa due anni, ma quando ho visto i lineamenti tagliati con l’accetta di Willem Dafoe, questo “The Florida Project” è balzato fuori con inaspettato vigore dal dormiente, quanto gigantesco, deposito mentale deputato ai film che vorrei vedere e che, talvolta, finiscono per non essere visti, per una pletora di motivi deputati ad argomenti troppo noiosi per essere citati all’interno di una recensione.
“The Florida Project”, del 48enne Sean Baker, è quello che banalmente si potrebbe definire uno spaccato di vita più o meno inedito all’interno di quello che sembra essere un contesto volatile ed effimero per alcuni, ed una soluzione semi-permanente per altri. Ma c’è di più.
II gigantesco diorama dove il film si svolge è il Magic Castle, un motel dall’improbabile color lavanda – ma che esiste veramente – situato a poca distanza dalla ciclopica Disney World, ed a qualche passo dalla fauci degli alligatori delle Everglades, il tutto immerso nel caldo sudaticcio di una torrida estate. All’interno di questo contesto coesistono insiemi eterogenei di persone, c’è chi lo utilizza per volatili quanto vacanzieri motivi – come si diceva prima – e c’è invece chi ha eletto a vera e propria casa una delle camere del motel. Tra queste persone c’è Halley (Bria Vinaite), una grezza ragazza madre, a metà tra il white trash e la suicide girl, che conduce un’esistenza perlopiù votata all’arrangiarsi in maniera approssimativa, vorrebbe lavorare (ma sembra non sbattersi troppo) e confida nella promessa di un’impiego in un fast food lì vicino fattale dall’amica Ashley (Mela Murder), anch’essa residente al Magic Castle.
Halley vivacchia, galleggia a malapena in una Orlando bollente, vende profumi taroccati ai ricchi clienti degli alberghi di lusso nei paraggi, che per interagire il meno possibile con una persona come lei preferiscono zittirla con una ventina di dollari, per poi caricare nervosamente il loro set di preziosissime mazze da golf sulla loro fuoriserie.
In quanto ragazza madre, Halley ha una figlia di circa sei anni, Moonee (la bravissima Brooklynn Prince), che ovviamente ha ereditato buona parte del bagaglio “culturale” della madre. È una bambina irrequieta e smargiassa che si ritrova spesso da sola a causa delle modalità che la madre usa per arrabattarsi, quindi la troviamo a vagabondare per il Magic Castle in compagnia dei coetanei Scooty e Dicky e, poco più avanti nel film, di Jancey, un’altra ragazzina che conoscerà in maniera accidentale, che abita nella vicina Futureland, una sorta di residence nelle vicinanze.
Infine abbiamo Bobby (un Willem Dafoe in grande spolvero che con questo film ha rischiato di vincere l’Oscar per il miglior attore non protagonista), manager, nonché factotum del Magic Castle, dotato di una pazienza pressoché inestinguibile quindi prossimo alla canonizzazione, in quanto sembra essere refrattario a tutte le stronzate che, a bizzeffe, si susseguono dentro e fuori il motel.
I protagonisti di questo film sono i bambini, quasi tutti figli di persone che tendenzialmente sono intente nella perpetua battaglia con gli avversi numi di una vita scricchiolante fatta di pochissimi soldi e di molti problemi, un mondo fatto anche di adulti-non-adulti come Halley, dotata di un carattere al limite della sopportabilità che, però, ha la dignità e la nobiltà d’animo di non far sentire il peso della vita alla figlia.
“The Florida Project” ci mostra questi bambini allo stato brado che fanno cose da bambini, che prendono in giro e che fanno danni (più o meno innocenti), il tutto all’ombra di una vicinissima Disney World che rimane un eterno miraggio per Moonee e gli altri che però non per questo si crucciano, bensì creano il loro parco tematico personale nell’America della crisi, giocando all’interno di un mondo quasi paradossale, dando un senso alla “allegra fatiscenza” che lambisce la brulicante patina disneyana, una fatiscenza fatta di case abbandonate color pastello, di ex negozi rosicchiati dal tempo dalle forme improbabili e giganteschi, quanto stregoneschi, salici resi canuti dall’abbondanza di muschio spagnolo. Sean Baker confeziona una bellissima perla, veramente un esercizio eccellente che rende omaggio ad una realtà tanto parallela quanto tangibile di un’America totalmente priva di patina, fatta di personaggi assolutamente credibili, lontani anni luce dalla retorica hollywoodiana, personaggi che si fanno amare, ed odiare, dallo spettatore, un film con un finale che si tuffa nell’improbabile probabilità quando le cose si fanno autenticamente pesanti, una chiusura che forse non accontenterà subito alcuni spettatori brontoloni che esigono sempre un preciso “spiegone” ma, che quest’ultimi lo vogliano o meno, finisce esattamente quando deve finire, poiché mostrare altro sarebbe stato accessorio e sicuramente scontato.
Federico Minguzzi
Ph’nglui mglw’nafh Cthulhu R’lyeh wgah’nagl fhtagn