The French Dispatch, l’eterna ghirlanda brillante di Wes Anderson
Si cercano, a volte, le parole giuste per rendere onore ad un film che ci è piaciuto. E’ davvero difficile, se non improbo, dinanzi alla multiforme, cangiante e polisemica opera di Wes Anderson aggrapparsi ad un grumo semantico che dia inizio all’esegesi, o quantomeno ne segni il cammino. Neppure l’ombra sinistra del panegirico dovrà spaventare l’intrepido commentatore che si accinge a parlare del film. Quel che certo è che The French Dispatch, ultima fatica del regista di Houston, ha davvero le carte in regola per essere dichiarato opera prima nell’eclettica filmografia di Anderson.
Arriva come decimo film ed è denso di impressionistici scorci, particolari sbalzati da un’arte barocca che tesse una tela abbacinante, una morbida seta che avvolge una storia che trasuda trepidanti omaggi e silenzioso sarcasmo, ironia che piove da tetti infestati di gatti, da tombini traboccanti ratti e dalle ruote della bici del prode Sazerac mentre solca le strade di Ennui-sur-Blasè, la sedicente cittadina francese eletta a sede distaccata di questo inserto del Liberty Kansas Evening Sun fondato nientemeno che da Horowitz Jr, uomo che seppe vedere in quelle strade inondate da una brulicante fauna animale ed umana, un lancinante rigurgito di storie da raccontare, da scrivere e da esporre al ludibrio dei propri lettori.
The French Dispatch è un Decameron miniaturizzato che offre tre potenti storie al proprio pubblico, tre articoli che ne dovranno sancire la morte editoriale in occasione della dipartita del fondatore. Un pittore geniale recluso in manicomio, una protesta studentesca condotta a colpi di arrocco, e infine un rapimento efferato concluso nella strage gastronomica di un cuoco poliziotto che lega l’arte inquisitoria all’abilità di sfornare manicaretti.
Tre deliri prestabiliti che mettono ordine nel caos o che ne sono artefici. Non importa. Rimane quella sensazione di un tremolante sapore che inonda le papille dopo la visione e ne contorce i pigmenti.
In questo impalpabile ricongiungersi, in questa continua ricerca di un equilibrio perfetto che esca dal caos del quotidiano e porti armonia l’anelito di Wes Anderson, la sua ineffabile poetica, ricorda il dettato di Douglas Hofstadter nel suo meraviglioso Godel, Escher e Bach, un’eterna ghirlanda brillante. Il matematico statunitense cercò e dimostrò la presenza di elementi logico-matematici all’interno di discipline umanistiche come la musica, la pittura e la letteratura. Autori come Bach, Escher e Lewis Carroll divengono, nelle mani del divulgatore, elementi da plasmare per rinvenire quel nastro di Moebius che fa delle loro opere tracciati di una luce perfetta, algoritmi di ciclicità che non spogliano l’Arte ma la esaltano, la vivificano. Anche nell’opera di Wes Anderson si può rinverdire questo spasmo che tende ad un’infinita bellezza ripiegata su se stessa, un’eterna ghirlanda brillante che trascina milioni di particelle attraverso un viaggio senza fine. Un’estetica che fluisce senza tempo.
Buon Ascolto con la quinta puntata della nona stagione di Viaggio nella Luna.
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Sono un essere senziente. Mi occupo di varia umanità dall’età di circa due anni. Sono giunto al mezzo secolo di esperienza vissuta su questo Pianeta. Laureato in Lettere Moderne con una tesi sulla Poetica dell’ultimo Caproni nel 1996. Interessato al cinema dall’età di tre anni e mezzo dopo una sofferta visione dei Tre Caballeros della Disney, opera discussa e aspramente criticata in presenza delle maestre d’asilo. Alla perenne ricerca di un nuovo Buster Keaton che possa riportare luce nelle tenebre e sale nei popcorn.