Un terremoto nel panorama hollywoodiano: Brad Pitt, dopo aver conquistato la gloria con il western revisionista di Tarantino, C’era una volta a… Hollywood, si appresta a collaborare con un altro gigante del cinema, David Fincher per girare il sequel del bellissimo film di Tarantino. La notizia, riportata da The Guardian, ha l’effetto di un’esplosione atomica in una sala da tè giapponese: silenziosa, ma capace di sconvolgere tutto ciò che si trova nel suo raggio d’azione. E la potenza distruttiva sta nella fusione di due stili apparentemente opposti, una combinazione che promette un risultato tanto imprevedibile quanto affascinante.
Nel panorama cinematografico contemporaneo, poche notizie hanno la capacità di scuotere le fondamenta del settore come l’annuncio di una collaborazione tra questi titani. E quella emersa nelle ultime ore è una di quelle che riscrive le regole dell’aspettativa: David Fincher, il maestro del thriller psicologico e del perfezionismo glaciale, dirigerà Brad Pitt in un seguito, o meglio, un “derivato” dell’universo di C’era una volta a… Hollywood. La sceneggiatura porta la firma inconfondibile del suo creatore originale, Quentin Tarantino, che ha però deciso di passare il testimone della regia. Il progetto, destinato a Netflix, si preannuncia come uno degli eventi cinematografici più attesi e discussi dei prossimi anni, unendo tre delle sensibilità artistiche più potenti e distinte del cinema americano.
Brad Pitt tornerà a vestire i panni dello stuntman Cliff Booth, personaggio che gli è valso un Oscar come Miglior Attore Non Protagonista e che ha incarnato l’essenza di una Hollywood al tramonto: un misto di carisma rilassato, professionalità silenziosa e una vena di violenza sopita. L’idea che sia proprio Fincher a esplorare ulteriormente la psiche di Booth è tanto inaspettata quanto elettrizzante. Se Tarantino ha usato il personaggio come archetipo di una mascolinità d’altri tempi, un eroe quasi mitologico in un mondo che non ha più bisogno di lui, Fincher potrebbe essere interessato a smontarne il mito, a indagare le crepe dietro la facciata impassibile.
Questa pellicola segna la quarta collaborazione ufficiale tra Pitt e Fincher, un sodalizio che ha prodotto alcune delle opere più iconiche delle loro rispettive carriere. La loro partnership è iniziata nel 1995 con Se7en, il thriller che ha consolidato Fincher come un autore da tenere d’occhio e ha spinto Pitt oltre lo status di semplice sex symbol. È proseguita con Fight Club (1999), un film-manifesto generazionale che ha sfidato le convenzioni narrative e ha cementato il loro legame creativo. Infine, Il curioso caso di Benjamin Button (2008) ha dimostrato la loro capacità di affrontare un racconto epico e malinconico, esplorando temi come il tempo, l’amore e la perdita con una maturità stilistica sorprendente. Dopo quasi due decenni, questa reunion non è solo un evento nostalgico, ma la promessa di un’ulteriore evoluzione per entrambi.
La dinamica più affascinante, tuttavia, risiede nel passaggio di consegne da Tarantino a Fincher. Tarantino, noto per il suo controllo quasi assoluto su ogni aspetto dei suoi film, dalla scrittura alla colonna sonora, ha concepito questo nuovo capitolo per Booth — forse basandosi su materiale espanso già presente nella sua novelizzazione del 2021 — ma ha scelto di affidarne la visione a un altro autore. La decisione è anomala per un regista che ha sempre considerato i suoi script come progetti inscindibili dalla sua regia. Questo gesto suggerisce una profonda fiducia in Fincher, forse l’unico regista in attività la cui meticolosità e ossessione per il dettaglio possono rivaleggiare con quelle di Tarantino.
La domanda che sorge spontanea è: come si concilieranno due stili così antitetici? Da un lato, il calore della pellicola, i dialoghi torrenziali e la violenza catartica e quasi gioiosa di Tarantino; dall’altro, la palette cromatica desaturata, la precisione chirurgica delle inquadrature e la tensione psicologica e cerebrale di Fincher. Il risultato potrebbe essere un ibrido stilistico senza precedenti. Fincher potrebbe prendere il mondo vibrante e saturo di Tarantino e immergerlo nella sua caratteristica oscurità, trasformando le avventure dello stuntman in un’indagine noir sull’identità e sulla violenza latente, temi a lui carissimi.
L’approdo del progetto su Netflix consolida ulteriormente il rapporto privilegiato tra il regista e la piattaforma di streaming, per la quale ha già realizzato film come Mank e The Killer e serie acclamate come House of Cards e Mindhunter. Per Netflix, assicurarsi un film con un simile pedigree rappresenta un colpo enorme, un’opera di prestigio capace di attirare sia il plauso della critica che l’attenzione del grande pubblico, riaffermando la propria centralità nella produzione di cinema d’autore su larga scala.
Mentre i dettagli della trama rimangono avvolti nel mistero, le speculazioni già impazzano. Il film esplorerà il passato nebuloso di Cliff Booth, forse facendo luce sulla misteriosa morte della moglie? O lo seguirà in una nuova fase della sua vita, magari negli anni ’70, un decennio cinematograficamente e culturalmente ancora più complesso e oscuro di quello rappresentato nel film originale? In ogni caso, l’idea di vedere Brad Pitt, all’apice della sua maturità artistica, navigare le ambiguità morali del suo personaggio sotto la guida inflessibile e analitica di David Fincher, partendo da una base scritta da Quentin Tarantino, non è solo una notizia. È una dichiarazione d’intenti: il cinema, anche nell’era dello streaming, ha ancora la capacità di creare eventi unici e imperdibili.