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Fino alle Montagne

Pubblicato il 30 Settembre 2025

C’è un mito tenace, un archetipo che pulsa sotto la pelle della civiltà occidentale, quello del ritorno alla terra. Un’eco che risuona da Virgilio a Thoreau, un desiderio di disconnessione che oggi, nell’era della tirannia dell’algoritmo e della dittatura della produttività, si è trasformato da anelito romantico a urgenza esistenziale. È in questo solco, fertile e pericoloso, che si innesta con intelligenza e una certa ambiguità calcolata Fino Alle Montagne (Bergers nel suo titolo originale, più onesto e meno lirico) della regista canadese Sophie Deraspe. Non aspettatevi, però, la cartolina bucolica o il manifesto Luddista. Il film di Deraspe è un’opera più complessa e stratificata, un trattato sulla performance dell’autenticità nell’epoca della sua riproducibilità tecnica.

Il nostro protagonista, Mathyas (un Félix-Antoine Duval la cui fisicità passa credibilmente da una levigatezza metropolitana a una ruvidità rurale), è l’epitome dell’uomo del ventunesimo secolo intrappolato nel suo stesso successo. Pubblicitario di grido a Montréal, plasma desideri, costruisce narrazioni per vendere prodotti. Il suo mondo è fatto di pixel, deadline e di quel vuoto pneumatico che si avverte quando il proprio talento è al servizio del nulla. La sua decisione di abbandonare tutto per diventare pastore in Provenza non è una semplice fuga, ma un tentativo di ri-calibrazione ontologica. È il passaggio da un’esistenza semiotica, basata sui segni, a una basata sulla materia: la terra, la lana, il sangue, il sudore. Eppure, e qui risiede il primo, geniale cortocircuito del film, Mathyas intraprende questa quête non solo per vivere, ma per scrivere di questa vita. Tratto dal romanzo semi-autobiografico di Mathyas Lefebure, D’où viens-tu, berger?, il film mette in scena un protagonista che non è solo un pastore novizio, ma è anche, e forse primariamente, l’etnografo di se stesso, il curatore della propria metamorfosi. La sua non è una ricerca di purezza, ma la costruzione di una nuova, più sofisticata narrazione personale.

Questa tensione meta-testuale è la spina dorsale del film. Mathyas fugge dal mondo della pubblicità solo per applicarne, inconsciamente, le regole al suo nuovo mondo. Le sue lettere a Elise (Solen Rigot), impiegata amministrativa incontrata per caso e sedotta da questo progetto di vita radicale, sono veri e propri “pitch” esistenziali. Egli edulcora la fatica, romanticizza la solitudine, trasforma la brutalità della pastorizia in una serie di aneddoti affascinanti. È ancora un pubblicitario, ma il prodotto ora è la sua stessa vita. Deraspe è magistrale nel mostrare come il carisma di Mathyas, forgiato nelle sale riunioni, si riveli un’arma spuntata di fronte alla pragmatica diffidenza dei pastori locali, uomini come Tellier (un magnifico Jean-Claude Baudracco), la cui pelle è una mappa di sole e fatica. Per loro, la pastorizia non è una filosofia, ma un mestiere spietato, una lotta quotidiana contro il tempo, le malattie, i predatori e la burocrazia.

Il film si struttura quasi in quattro atti, quattro stagioni di un’educazione sentimentale e professionale che smantella pezzo per pezzo l’idealismo di Mathyas. Il primo impatto è brutale: la scoperta che la natura non è un’entità benevola alla Walt Disney, ma un sistema indifferente e spesso crudele. La macchina da presa di Deraspe, con la fotografia terrena e tattile di Vincent Gonneville, non ci risparmia nulla: la nascita faticosa di un agnello, la vista di una pecora sventrata dai lupi, la solitudine lancinante che si annida nelle lunghe ore di pascolo, un silenzio così profondo da diventare assordante. Questa de-romanticizzazione richiama alla mente non tanto il cinema pastorale, quanto il realismo pittorico di un Courbet, che si rifiutava di idealizzare la fatica dei suoi contadini. Allo stesso modo, Deraspe si rifiuta di trasformare i suoi pastori in saggi depositari di una sapienza ancestrale; sono lavoratori, spesso logorati, la cui saggezza è puramente funzionale alla sopravvivenza del gregge.

L’arrivo di Elise segna una svolta, ma non quella che ci si aspetterebbe. Non è l’inizio di un idillio campestre. Anzi, la sua presenza costringe Mathyas a confrontarsi con la finzione che le ha venduto. Insieme, sotto l’ala della pragmatica Cécile Espiriroux (Guiliane Londez), imparano che la pastorizia non è un’impresa individuale, un’affermazione del sé contro il mondo, ma un’attività di cooperazione, un’immersione in un sapere collettivo. La loro relazione si cementa non su tramonti infuocati, ma sulla condivisione di turni di veglia, sulla medicazione di una zampa ferita, sull’imparare a leggere il cielo e il comportamento del gregge, questo super-organismo pulsante e imprevedibile che Gonneville filma con un rispetto quasi panteistico, non come semplice bestiame ma come una forza della natura.

Il cuore pulsante del film, la sua vera epifania visiva e concettuale, è la sequenza della transumanza. Qui, Deraspe abbandona il registro intimista per abbracciare l’epica. Migliaia di pecore provenienti da diverse fattorie si uniscono in un fiume vivente di lana e campanacci che fluisce attraverso il paesaggio, invadendo strade asfaltate, attraversando ponti moderni, accampandosi ai margini di città addormentate. È un’immagine potentissima, un’opera di land art effimera e ancestrale che mette in scena la collisione tra due temporalità: il tempo ciclico e immutabile della pastorizia e quello lineare e frammentato della modernità. Per pochi giorni, il mondo contemporaneo si ferma, si fa da parte per lasciar passare un rito millenario. La colonna sonora di Philippe Brault, fino a quel momento discreta e atmosferica, si apre a un respiro più ampio, sottolineando la maestosità quasi surreale di questa processione. In questa sequenza, Mathyas ed Elise cessano di essere i protagonisti; diventano particelle di un moto collettivo, le loro individualità si sciolgono nel ritmo primordiale della marcia. È il momento in cui la ricerca di autenticità di Mathyas smette di essere una performance e diventa, forse per la prima volta, un’esperienza genuina e totalizzante.

Tuttavia, Fino Alle Montagne non è un film perfetto, e la sua grandezza risiede forse proprio nelle sue incrinature. Se la prima parte è un’analisi spietata del divario tra fantasia e realtà, la seconda, specialmente dopo la transumanza, rischia a tratti di cedere a un nuovo tipo di romanticismo. La durezza si attenua, la coppia trova un suo equilibrio, e il film sembra suggerire che un’armonia sia, dopotutto, possibile. Si avverte la mancanza di un affondo più deciso sulle questioni economiche che strangolano la piccola pastorizia, sulla concorrenza dell’agricoltura industriale, accennata solo di sfuggita. Il film rimane concentrato sul percorso interiore dei suoi protagonisti, rischiando di trasformare un problema sistemico in una questione di scelta di vita individuale, accessibile in fondo solo a chi, come Mathyas, possiede il capitale culturale ed economico per poter “scegliere” di essere povero.

Ciononostante, Fino Alle Montagne rimane un’opera di rara intelligenza. È un film che ci interroga sul significato del lavoro, sull’autenticità dei nostri desideri e sulla nostra inestinguibile necessità di raccontarci storie per dare un senso al caos. Sophie Deraspe non ci dà una risposta facile. Non ci dice se la fuga di Mathyas sia un successo o un fallimento, una liberazione o solo un cambio di prigione, da una dorata a una fatta di vento e solitudine. Ci mostra, piuttosto, che il viaggio verso la cima della montagna, come quello verso il centro di se stessi, è un percorso accidentato, pieno di false partenze e di miraggi. E che, forse, l’unica autenticità possibile non sta nell’arrivare, ma nel continuare a camminare, accettando che ogni passo solleva polvere e lascia dietro di sé un’impronta che è, inevitabilmente, già l’inizio di una storia.

Scheda Film

Voto: 7.2/10 (TMDb)

Regista: Sophie Deraspe

Cast: Félix-Antoine Duval, Solène Rigot, Guilaine Londez, Michel Benizri, David Ayala

Sceneggiatura: Sophie Deraspe, Mathyas Lefebure

Data di uscita: 15 Nov 2024

Titolo originale: Bergers

Paese di produzione: Canada

Vedi la scheda completa su IMDb →

Scritto da Marco Belemmi

Sono un essere senziente. Mi occupo di varia umanità dall'età di circa due anni. Sono giunto al mezzo secolo di esperienza vissuta su questo Pianeta. Laureato in Lettere Moderne con una tesi sulla Poetica dell'ultimo Caproni nel 1996. Interessato al cinema dall'età di tre anni e mezzo dopo una sofferta visione dei Tre Caballeros della Disney, opera discussa e aspramente criticata in presenza delle maestre d'asilo. Alla perenne ricerca di un nuovo Buster Keaton che possa riportare luce nelle tenebre e sale nei popcorn.

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