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Hamnet

Pubblicato il 1 Ottobre 2025

Cosa resta di un fantasma? Non delle sue catene o dei suoi lamenti, ma del fantasma storico, della figura la cui esistenza è una nota a piè di pagina, un’eco silenziosa inghiottita dal frastuono di un nome più grande. Agnes Hathaway, moglie di William Shakespeare, è uno di questi spettri. Un nome in un registro parrocchiale, una firma incerta su un documento, il lascito di un “secondo miglior letto” in un testamento che ha incendiato secoli di dibattito accademico. È in questo spazio vuoto, in questa assenza assordante, che si insinua con la forza di una radice il romanzo di Maggie O’Farrell, e ora, l’attesissimo adattamento cinematografico di Chloé Zhao, Hamnet. Un’opera che non è un biopic, ma un anti-biopic; non è un’agiografia del Bardo, ma un’esumazione, un atto di giustizia poetica e di archeologia emotiva.

Affidare un materiale così incandescente, intriso di lirismo e di una sensibilità quasi pre-moderna, a Chloé Zhao, la cantrice dei margini americani, dei nomadi del crepuscolo e dei cowboy dal cuore spezzato, poteva sembrare un azzardo, un cortocircuito stilistico. E invece, si rivela la scelta più radicale e coerente. Zhao prende il dramma in costume e lo spoglia di ogni orpello, di ogni trina e di ogni riverenza. Il suo non è il Rinascimento patinato e aulico della tradizione Merchant-Ivory. Immaginate Terrence Malick che, per un momento, smette di interrogare il cielo e affonda le mani nel fango febbricitante dell’Inghilterra elisabettiana. La Stratford-upon-Avon di Zhao è un luogo tattile, organico, un groviglio di legno umido, paglia marcescente e odore di pelli conciate. Un mondo dove la superstizione e la fede, la fitoterapia e la preghiera, non sono ancora state separate dalla lama affilata della Ragione. In questo universo, la sua macchina da presa si muove con la consueta grazia panteistica, cercando la stessa luce dorata e struggente di Nomadland non nelle highway del South Dakota, ma tra le querce della foresta di Arden, trasformando il paesaggio inglese in un co-protagonista, un’entità viva che respira, offre rifugio e minaccia.

Al centro di questo cosmo c’è Agnes, e Jessie Buckley le dona una vita che va oltre la semplice interpretazione. La sua non è una performance, è un’incarnazione. Lungi dall’essere la contadina analfabeta dipinta da una certa storiografia maschilista, l’Agnes di Buckley (e di O’Farrell prima di lei) è una creatura del bosco, una donna-radice il cui sapere non deriva dai libri ma dalla terra. Possiede un’intelligenza sinestetica, una capacità quasi divinatoria di leggere le persone, di curare con le erbe, di percepire il tessuto invisibile che lega le cose. Buckley, con la sua intensità terrena e la sua capacità di far trasparire un universo di emozioni da un singolo sguardo, è perfetta per questo ruolo. Rende credibile e viscerale la sua connessione quasi pagana con la natura, il suo essere una figura liminale, a metà tra il mondo umano e quello degli spiriti della foresta. È lei il centro gravitazionale del racconto, il sole attorno a cui orbita un marito talentuoso ma elusivo, spesso assente, un uomo che lei percepisce come un enigma.

E chi meglio di Paul Mescal per interpretare questo Shakespeare prima di “Shakespeare”? La sfida era titanica: come si mette in scena il Genio senza cadere nella caricatura? Zhao e Mescal scelgono l’unica via possibile: la sottrazione. Il suo William non è un titano della letteratura, ma un giovane precettore di latino, un figlio insoddisfatto di un guantaio irascibile, un marito innamorato ma irrequieto, un padre affettuoso ma perennemente in fuga. Mescal, maestro nel comunicare la vulnerabilità e le correnti sotterranee dell’animo maschile, gli presta un’inquietudine palpabile. Lo vediamo lottare con le parole, non come un dio che le evoca dal nulla, ma come un artigiano che le cerca, le assembla, le scarta. La sua ambizione, la sua necessità di fuggire dalla provincia per perdersi nel calderone ribollente di Londra, non è dipinta come la vocazione dell’artista, ma come una forma di egoismo, forse necessaria, ma non per questo meno dolorosa per chi resta.

Il film, come il romanzo, orbita attorno a un buco nero: la morte del figlio undicenne, Hamnet, gemello di Judith. Zhao affronta questa tragedia con un pudore e una potenza devastanti, eludendo ogni tentazione melodrammatica. La malattia del bambino non è un evento, ma un’invasione silenziosa. La macchina da presa si sofferma sui dettagli, sul respiro affannoso, sulla febbre che consuma il corpo, sul senso di impotenza che sgretola la famiglia. La celeberrima sequenza del romanzo in cui O’Farrell traccia il viaggio di una singola pulce infetta da una scimmia ad Alessandria d’Egitto fino al cuore dell’Inghilterra, viene trasposta da Zhao in un montaggio quasi astratto, una sinfonia funebre di immagini – una mano che tocca una stoffa, una moneta che passa di mano in mano, una nave che solca il mare – che visualizza l’inarrestabile e casuale propagarsi del Fato. La morte di Hamnet non è un evento da libro di storia, è il collasso di un universo. Per Agnes, la sua percezione del mondo si frattura, i suoi “doni” diventano una maledizione, la natura da fonte di vita si trasforma in un testimone muto e indifferente della sua perdita.

È qui che Hamnet compie il suo scarto più audace e intellettualmente provocatorio, trasformandosi in una profonda meditazione sulla natura dell’arte e sull’atto della creazione. A Londra, a Shakespeare giunge la notizia della morte del figlio. Il suo dolore, filtrato dalla distanza, si mescola al senso di colpa e all’urgenza creativa. E da questo crogiolo di lutto indicibile, nasce l’idea di una tragedia. Un’opera su un principe danese che porta quasi lo stesso nome del figlio perduto: Hamlet. Questo è il cuore oscuro e pulsante del film. L’arte non come consolazione, ma come trasfigurazione, forse persino come una forma di vampirismo emotivo. William prende il dolore più specifico, privato e insopportabile della moglie e lo trasforma in una narrazione universale, in uno spettacolo per un pubblico pagante.

La sequenza finale, in cui Agnes si reca a Londra e assiste per la prima volta alla rappresentazione dell’Amleto, è un pezzo di cinema di una potenza lancinante. Zhao non ci mostra il palco, ma il volto di Jessie Buckley. Sul suo viso vediamo passare lo shock, la confusione, la rabbia, e infine una forma complessa di comprensione. Vede il fantasma di suo figlio, il suo dolore personale, diventare un testo, un’allegoria, intrattenimento. Il suo lutto è stato espropriato, alchemizzato in letteratura. È un omaggio o un furto? Un atto d’amore o l’apice dell’egoismo artistico? Il film non giudica. Ci lascia con questa domanda terribile, sospesa nel buio del Globe Theatre. Ci suggerisce che dietro ogni capolavoro che ci conforta e ci definisce, potrebbe esserci una ferita che non si è mai rimarginata, un grido che è stato tradotto in versi perfetti. Hamnet di Chloé Zhao è un atto di restituzione che ci ricorda che la storia non la scrivono solo i geni, ma anche i fantasmi che si lasciano alle spalle, le cui vite silenziose sono la materia oscura e invisibile da cui nascono le stelle.

Scheda Film

Voto: 8.4/10

Regista: Chloé Zhao

Cast: Jessie Buckley, Paul Mescal, Emily Watson, Joe Alwyn, Jacobi Jupe

Sceneggiatura: Maggie O’Farrell, Chloé Zhao

Data di uscita: 27 Nov 2025

Titolo originale: Hamnet

Paese di produzione: United Kingdom

Vedi la scheda completa su IMDb →

Scritto da Marco Belemmi

Sono un essere senziente. Mi occupo di varia umanità dall'età di circa due anni. Sono giunto al mezzo secolo di esperienza vissuta su questo Pianeta. Laureato in Lettere Moderne con una tesi sulla Poetica dell'ultimo Caproni nel 1996. Interessato al cinema dall'età di tre anni e mezzo dopo una sofferta visione dei Tre Caballeros della Disney, opera discussa e aspramente criticata in presenza delle maestre d'asilo. Alla perenne ricerca di un nuovo Buster Keaton che possa riportare luce nelle tenebre e sale nei popcorn.

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