Sgombriamo subito il campo da ogni equivoco: se cercate in Il padre dell’anno (titolo originale Goodrich, che suona già come un programma esistenziale, un anelito alla “bontà” da riconquistare) l’ennesima variazione sul tema del genitore imbranato che scopre la paternità come una sorta di epifania comica tra un pannolino esplosivo e una pappa rovesciata, siete fuori strada. O meglio, la strada è quella, ma Hallie Meyers-Shyer, figlia d’arte (e che arte, quella di Nancy Meyers e Charles Shyer, nume tutelare della rom-com adulta e patinata), decide di percorrerla con un’andatura diversa, meno incline alla gag slapstick e più sintonizzata sulle frequenze agrodolci di una malinconia tutta losangelina. Il film si presenta come una commedia, ma sotto la superficie levigata da una fotografia calda e avvolgente, quasi a voler ammorbidire gli spigoli dei suoi personaggi, si agita un dramma sommesso sulla decostruzione del maschio alfa e sulla rinegoziazione dei ruoli familiari nell’era della fluidità emotiva.
Al centro di questo piccolo terremoto esistenziale c’è Andy Goodrich, interpretato da un Michael Keaton che, ancora una volta, dimostra di essere un maestro nel funambolismo attoriale, capace di camminare in equilibrio sul filo che separa l’adorabile cialtrone dal nevrotico insopportabile. Goodrich è un mercante d’arte, un uomo abituato a curare le apparenze, a vendere bellezza e a tenere a debita distanza le brutture della vita. La sua galleria è un’oasi di ordine e perfezione estetica, un microcosmo che riflette il suo desiderio di controllo. Quando la sua seconda, e molto più giovane, moglie finisce in un programma di riabilitazione (un McGuffin narrativo che serve a innescare la crisi, ma che il film, saggiamente, lascia sullo sfondo), questo universo patinato va in frantumi. Andy si ritrova solo, assediato da due figli piccoli che fino a quel momento aveva probabilmente considerato alla stregua di preziose ma incomprensibili opere d’arte contemporanea. La sua reazione non è quella di rimboccarsi le maniche, ma di fare ciò che ha sempre fatto: delegare.
Ed è qui che entra in scena Grace, la figlia avuta dal primo matrimonio, una Mila Kunis che abbandona i panni della femme fatale o della ragazza della porta accanto per indossare quelli, ben più complessi, della “figlia genitore”, colei che per tutta la vita ha dovuto fare da madre al proprio padre. Il loro rapporto è il vero motore del film, un duetto giocato su una partitura di affetto risentito, di amore inespresso e di antiche ferite mai del tutto cicatrizzate. Grace è la rappresentante di quella “sandwich generation” costretta a prendersi cura sia dei figli che dei genitori, ma nel suo caso il carico è doppio, perché il padre che deve accudire non è un anziano bisognoso, ma un eterno Peter Pan che si rifiuta di crescere. La dinamica tra i due è un piccolo capolavoro di scrittura e di interpretazione. Meyers-Shyer evita le scene madri, i grandi confronti urlati, per concentrarsi sulle piccole scaramucce quotidiane, sui dialoghi interrotti, sugli sguardi che dicono più di mille parole. È una guerra di posizione combattuta a colpi di sarcasmo e di affilata ironia, dove ogni battuta nasconde un non detto, ogni gesto gentile cela una richiesta di perdono.
Il film, in questo, sembra quasi dialogare a distanza con certo cinema indipendente americano, da Noah Baumbach a Nicole Holofcener, autori che hanno fatto dell’analisi delle disfunzioni familiari borghesi e intellettuali il loro marchio di fabbrica. Come in The Meyerowitz Stories o in Enough Said, anche qui i personaggi parlano molto, spesso di cose apparentemente futili, ma il loro continuo discorrere è un modo per evitare di affrontare il vero nucleo del problema: l’incapacità di comunicare i propri sentimenti, la paura della vulnerabilità. Andy Goodrich potrebbe essere un cugino di primo grado dei personaggi interpretati da Dustin Hoffman o da Ben Stiller nei film di Baumbach: uomini intelligenti, di successo, ma emotivamente analfabeti, intrappolati in un narcisismo che impedisce loro di vedere le persone che hanno accanto per quello che sono realmente. La L.A. che fa da sfondo alla vicenda non è quella glamour di Hollywood, ma un paesaggio dell’anima, un labirinto di strade assolate e di interni minimalisti dove i personaggi si muovono come atomi impazziti, alla ricerca di un contatto che sembra sempre sfuggire.
Michael Keaton offre una performance che è un saggio di bravura. Il suo Andy non è un mostro, ma un uomo profondamente immaturo, un seduttore che ha usato il suo fascino come uno scudo per non dover mai fare i conti con le proprie responsabilità. È egoista, distratto, a tratti persino crudele nella sua inconsapevolezza, ma Keaton riesce a infondergli un’umanità dolente, una fragilità che emerge nei momenti più inaspettati. Quando cerca goffamente di preparare la colazione ai figli o quando si presenta a una recita scolastica con l’aria di chi è atterrato su un pianeta sconosciuto, non vediamo solo un uomo inetto, ma un uomo perso, spaventato dalla prospettiva di dover finalmente diventare l’adulto della situazione. La sua comicità nasce dal patetico, dalla discrepanza tra l’immagine che ha di sé e la realtà dei fatti. È un Re Lear in formato tascabile, un sovrano detronizzato che si ritrova a vagare non in una brughiera, ma tra i corridoi di un supermercato, spingendo un carrello pieno di cibo per l’infanzia.
Mila Kunis le tiene testa con una recitazione tutta in sottrazione. La sua Grace è una donna pragmatica, efficiente, che ha imparato a sue spese a non aspettarsi nulla dal padre. Ma sotto la corazza di cinismo e di rassegnazione, c’è ancora la bambina che spera in un gesto di affetto, in un riconoscimento. Il suo percorso nel film è speculare a quello di Andy: se lui deve imparare a essere padre, lei deve imparare a essere figlia, a concedersi il lusso della fragilità, a smettere di essere l’unica responsabile della tenuta emotiva della famiglia. La loro chimica è perfetta, e le scene in cui sono insieme sono le migliori del film, piccoli gioielli di realismo psicologico che oscillano tra la commedia e il dramma con una naturalezza sorprendente. Menzione d’onore anche per Danny Deferrari nel ruolo del marito di Grace, una figura apparentemente secondaria ma in realtà cruciale: è lui lo specchio in cui si riflette l’inadeguatezza di Andy, l’uomo solido, presente e affidabile che Andy non è mai stato.
Certo, Il padre dell’anno non è un film esente da difetti. La regia di Hallie Meyers-Shyer è a volte un po’ troppo educata, troppo “pulita”, quasi timorosa di affondare il bisturi nelle piaghe che pure il racconto mette a nudo. L’estetica, ereditata dal cinema della madre, è quella di un mondo privilegiato dove i problemi, per quanto dolorosi, sembrano sempre risolvibili, dove le case sono meravigliose, i vestiti impeccabili e la luce sempre perfetta. Manca, forse, un po’ di “sporcizia”, un po’ di quel caos visivo che avrebbe potuto rendere ancora più tangibile il disordine interiore dei personaggi. A tratti si ha l’impressione che il film si accontenti di rimanere in superficie, di sfiorare i temi (la dipendenza, la depressione, la crisi della mascolinità) senza mai avere il coraggio di esplorarli fino in fondo.
Eppure, nonostante questa patina di amabilità, l’opera riesce a colpire nel segno. Lo fa grazie alla sincerità della scrittura, alla verità delle interpretazioni e alla sua capacità di raccontare una storia di riconciliazione che non è mai consolatoria o ricattatoria. Il finale non offre soluzioni magiche. Andy non si trasforma miracolosamente nel padre perfetto, né Grace dimentica le delusioni del passato. Ma qualcosa è cambiato. Un nuovo equilibrio, più fragile ma più autentico, è stato raggiunto. Hanno imparato a vedersi, forse per la prima volta. E in un mondo che ci spinge costantemente a proiettare sugli altri le nostre aspettative e i nostri bisogni, imparare a guardare chi ci sta accanto con occhi nuovi è, forse, il più rivoluzionario degli atti d’amore. Il padre dell’anno è un film piccolo, imperfetto, ma onesto. Un’elegia sommessa sulla difficoltà di essere genitori e sulla fatica ancora più grande di essere figli. E in fondo, non è forse questa la commedia umana in cui, volenti o nolenti, ci troviamo tutti a recitare?
Scheda Film
Voto:
Regista: Hallie Meyers-Shyer
Cast: Michael Keaton, Mila Kunis, Carmen Ejogo, Michael Urie, Kevin Pollak
Sceneggiatura: Hallie Meyers-Shyer
Data di uscita: 17 Ott 2024
Titolo originale: Goodrich
Paese di produzione: United States of America
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