La figura di Miguel de Cervantes Saavedra, padre del romanzo moderno e architetto di mondi letterari sconfinati, è sorprendentemente rimasta ai margini delle grandi narrazioni cinematografiche. Mentre Shakespeare è stato vivisezionato, reinventato e persino parodiato in decine di pellicole – pensiamo al recente Hamnet che ne esplora le fragilità umane – il genio spagnolo ha atteso a lungo un’interpretazione degna del suo mito. Ed è qui che interviene Alejandro Amenábar, l’acclamato regista di The Others e Mare dentro, che con Il prigioniero non solo colma questa lacuna, ma lo fa con un’audacia e una libertà creativa che spiazzano e affascinano. Dimenticate l’agiografia da manuale, perché Amenábar non è interessato a scolpire un monumento, ma a scandagliare l’anima complessa di un uomo, liberandolo dai ceppi della fedeltà storica per consegnarci un ritratto vivo, pulsante e, per certi versi, provocatorio.
Il film ci catapulta in un’Algeri del 1575, dove un Miguel de Cervantes (interpretato con misurata intensità da Julio Peña) di appena 28 anni, soldato della marina spagnola ferito e segnato dalle battaglie, si ritrova prigioniero dei corsari ottomani. Ma se la premessa è storica, lo sviluppo è una riscrittura coraggiosa, un’incursione nei territori dell’immaginazione che Amenábar conduce con la grazia e la perspicacia che lo contraddistinguono. Il prigioniero non è il classico biopic che si limita a sfogliare le pagine di Wikipedia, né tantomeno un’esaltazione didascalica del genio. È, piuttosto, un’immersione profonda in un frammento cruciale della vita di Cervantes, i cinque anni di schiavitù e detenzione sotto il Bey di Algeri, Hasan Pasha (un Alessandro Borghi vulcanico e magnetico). E proprio questa circoscrizione temporale e spaziale – il film è quasi un single-location movie, ambientato principalmente nel cortile del palazzo del Bey – è la chiave della sua forza e della sua intima risonanza.
La provocazione maggiore di Amenábar risiede nella sua audace reinterpretazione della sessualità di Cervantes, immaginandolo come un uomo gay che intraprende una relazione con il suo carceriere. Questa non è una mera licenza poetica, né una sterile operazione di revisionismo per compiacere sensibilità contemporanee. È una scelta narrativa che affonda le radici in due dati storici enigmatici: l’esilio di Cervantes da Madrid per “azioni malvagie” e il suo inspiegabile “favore” presso il Bey, anche dopo numerosi tentativi di fuga. Amenábar prende questi enigmi e li trasforma in materia narrativa, suggerendo che la condanna di Madrid potesse essere legata a un’accusa di “sodomia” e la sua sopravvivenza ad Algeri a “favori sessuali”. Questa reinterpretazione non è un capriccio, ma un tentativo di umanizzare l’eroe, di renderlo più complesso, più vicino alle ombre e alle luci che abitano ogni esistenza. Il film si trasforma così in un melodrama gay che, pur basandosi su un’ipotesi audace, riesce a esplorare temi universali come la sopravvivenza, il desiderio, il potere e la libertà in un contesto di privazione estrema.
L’Algeri islamica del XVI secolo, come ce la mostra Amenábar, è un sorprendente crogiolo di sensualità e di una certa, inaspettata, fluidità sessuale, quasi più “gay friendly” di certe città moderne. È una visione quasi fiabesca, un’immagine in cui il queer è onnipresente, dai giovani musulmani in cross-dressing agli uomini che si baciano apertamente. Questa rappresentazione, seppur iperbolica e stilizzata, serve a creare un contrasto potente con il mondo più rigido e restrittivo della Spagna cattolica. Anche i prigionieri cristiani spagnoli, inizialmente scandalizzati, si lasciano presto coinvolgere, rivelando una sorprendente apertura o, forse, una disperata ricerca di consolazione e piacere in un ambiente ostile. Amenábar non si sottrae a carichi di omoerotismo e allusioni, ma lo fa con un gusto visivo raffinato, lasciando spesso il “grafico” all’immaginazione dello spettatore.
Uno degli aspetti più affascinanti de Il prigioniero è il modo in cui Amenábar ci mostra Cervantes non come il “già scrittore” ma come il “futuro scrittore”, un uomo che affina la sua arte della narrazione sotto il peso della prigionia. Le storie che inventa per passare il tempo e per dare speranza ai suoi compagni di sventura – il prete nascosto Blanco de Paz (Fernando Tejero), lo scrittore Sosa (Miguel Rellán), il giardiniere Dorador (Luis Callejo) – diventano il suo scudo, la sua arma, la sua moneta di scambio. Quando il Bey Hasan Pasha lo scopre, Cervantes si trasforma in una sorta di Scheherazade cristiano, un narratore di favole il cui talento è la sua unica moneta per ottenere privilegi e clemenza.
Il film gioca magistralmente con il concetto di meta-narrazione, tagliando avanti e indietro tra gli eventi reali della prigionia e le storie inventate da Cervantes, sfumando intenzionalmente i confini tra l’uno e l’altro. Questa tecnica non è solo un omaggio al Don Chisciotte – un’opera che, per sua stessa natura, gioca con i confini tra realtà e immaginazione – ma anche un modo per indagare il potere catartico e liberatorio della narrazione. Le storie diventano un modo per fuggire, per resistere, per creare un mondo alternativo anche quando la realtà è fatta di catene.
Il rapporto tra Cervantes e Hasan Pasha si intensifica in questo scambio, trasformandosi in una “tossica fornace di lussuria” (come efficacemente descritto). Le scene in cui i due sono insieme, spesso nudi durante massaggi o bagni, sono cariche di una tensione palpabile, di un gioco di seduzione e potere che è al tempo stesso erotico e intellettuale. Borghi, reduce dal successo di Supersex su Rocco Siffredi, porta in scena una “floridità, untuosità e joie de vivre” che si mescolano a una “minaccia e crudeltà seducenti”. Il suo Bey non è un semplice villain, ma un personaggio complesso, vulnerabile nella sua tirannia, che si innamora del suo prigioniero pur continuando a torturarlo. La sua presenza è un “villain radicato” che dà forza alla lotta interiore ed esterna di Cervantes.
Come ogni film storico, Il prigioniero affronta le sfide della rappresentazione del passato. Amenábar, tuttavia, le trasforma in opportunità. La scelta di contenere la narrazione in un’unica ambientazione – i giardini del palazzo e il bazaar di Algeri – non è un limite, ma una virtù. Permette al regista di concentrare le risorse e di creare un’Algeri del 1570 splendidamente dettagliata e credibile, che ricorda la cura estetica di film come Agora (2009). La musica, pur “adeguata”, con un’unica eccezione di un “ditty in stile Tollywood” che spicca in un montaggio, accompagna la narrazione senza sovrastarla.
Un’altra interessante riflessione riguarda le convenzioni linguistiche. Il film, pur ambientato nel XVI secolo, è attento a usare termini che all’epoca sarebbero stati comprensibili, pur se oggi possono suonare anacronistici o problematici. Il riferimento ai nordafricani musulmani come “Mori”, al sesso gay come “sodomia” e agli uomini gay come “queer” è una scelta consapevole per ancorare il film al suo contesto storico, anche se ciò significa confrontarsi con un linguaggio che la storia e la sensibilità moderna hanno superato.
L’inserimento di una principessa musulmana come personaggio principale in una delle storie narrate da Cervantes, pur essendo probabilmente un espediente per avere una figura femminile in un cast quasi interamente maschile (come in Lawrence d’Arabia, seppur con dinamiche assai diverse), è un tocco che arricchisce il tessuto narrativo, mostrando come la fantasia del prigioniero potesse spaziare oltre le mura della sua cella.
Il prigioniero è un film che osa, che sfida le convenzioni del biopic e ci offre un ritratto di Cervantes che è al tempo stesso intimo e grandioso. Non è un film per chi cerca una fedele drammatizzazione di come siano stati scritti specifici passaggi del Don Chisciotte (il film è ambientato decenni prima della sua stesura). È, invece, per chi è disposto ad abbracciare la libertà creativa e a lasciarsi trasportare in un viaggio nella psiche di un uomo che, anche nelle condizioni più estreme, ha trovato nella narrazione la sua più potente forma di liberazione. Julio Peña incarna con convinzione l’eroismo gentile e il talento di storyteller di Cervantes, mentre Alessandro Borghi crea un antagonista-amante profondo e complesso. La loro relazione, questo “inferno tossico di lussuria”, è il cuore pulsante del film, un motore di passione e dolore.
Amenábar, ancora una volta, dimostra di essere un maestro nel costruire mondi complessi e nel porre domande scomode. Il prigioniero non è solo un film su un personaggio famoso; è una storia che sarebbe valsa la pena raccontare anche se il suo protagonista non fosse stato il leggendario autore del Don Chisciotte. È un inno alla resilienza dello spirito umano, alla capacità dell’arte di fiorire anche nelle condizioni più avverse, e alla libertà che si può trovare anche quando si è in catene, purché si abbia una storia da raccontare. Una visione consigliatissima dunque, per un’opera che non teme di guardare negli occhi le ambiguità della storia e dell’animo umano.
Scheda Film
Voto:
Regista: Alejandro Amenábar
Cast: Julio Peña, Alessandro Borghi, Miguel Rellán, Fernando Tejero, Luis Callejo
Sceneggiatura: Alejandro Amenábar
Data di uscita: 12 Set 2025
Titolo originale: El cautivo
Paese di produzione: Italy
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