Dopo averci trascinato nel fango e nel fragore apocalittico delle trincee con il suo acclamato Niente di nuovo sul fronte occidentale, Edward Berger compie uno scarto tematico e geografico che è solo apparentemente radicale. Sostituisce l’orrore fisico e collettivo della guerra con l’orrore psicologico e solitario della dipendenza, il campo di battaglia con il panno verde del tavolo da baccarat. Ma il suo sguardo rimane quello di un anatomista della disintegrazione umana. La sua Macao non è la cartolina glamour di un film di James Bond. È un’allucinazione architettonica, un non-luogo iperreale dove i fantasmi del colonialismo portoghese – facciate scrostate, azulejos sbiaditi – vengono divorati vivi dalla fame insaziabile di casinò grandi come città-stato, cattedrali al neon erette in onore del Dio Denaro e della Dea Sorte. In questo paesaggio dell’anima, la fotografia di James Friend (collaboratore di Berger anche sul fronte occidentale) dipinge un mondo di contrasti lancinanti: il buio degli interni opprimenti squarciato dalla luce tossica delle slot machine, il riflesso infinito delle insegne su strade perpetuamente bagnate, come se la città stessa sudasse ansia.
In uscita il 29 ottobre direttamente su Netflix (dopo essere passato la settimana precedente in alcuni cinema selezionati) La ballata di un piccolo giocatore è la conferma del vincolo strettissimo che lega il regista austriaco alla celebre piattaforma di streaming. Una storia che dipinge un inferno personale in cui precipita lentamente un giocatore d’azzardo.
Al centro di questo inferno c’è Lord Doyle, e Colin Farrell gli offre una delle sue interpretazioni più sommesse e strazianti. Il suo non è il giocatore spavaldo e carismatico del cinema classico. È un uomo svuotato, un aristocratico inglese caduto in disgrazia, in fuga da uno scandalo legale e da se stesso, la cui vita si è ridotta a un unico, ripetitivo rituale: scommettere. Farrell è magistrale nel comunicare la profonda stanchezza esistenziale del suo personaggio. Il suo fascino è una vernice sottile che si sta scrostando, rivelando la disperazione sottostante. Lo vediamo nei suoi gesti minimi: il modo quasi impercettibile in cui le sue mani tremano prima di una puntata, il sudore che imperla la sua fronte sotto le luci spietate del casinò, lo sguardo perso nel vuoto anche quando vince. Il titolo è una chiave di lettura fondamentale: Doyle è un “piccolo giocatore”, non per l’entità delle sue puntate, ma per la sua insignificanza cosmica. È una pedina in un gioco che non può comprendere né controllare.
Il gioco d’elezione di Doyle, il baccarat, non è casuale. A differenza del poker, non è un gioco di abilità, di bluff, di psicologia. È pura, nuda, brutale fortuna. Giocatore e banco. Una scelta binaria la cui logica è imperscrutabile. Berger filma le sequenze di gioco non con il montaggio adrenalinico di un heist movie, ma con una lentezza ipnotica, quasi liturgica. La mano del croupier che scopre le carte, il silenzio carico di tensione, il fruscio delle fiches: tutto contribuisce a creare non un senso di eccitazione, ma di oppressione, di condanna. Il gioco per Doyle non è un divertimento, né un modo per arricchirsi; è una forma di preghiera nichilista, un tentativo di trovare un ordine, un segno, una qualche forma di grazia in un universo che ne è palesemente privo. È il Dostoevskij de Il giocatore teletrasportato in un futuro distopico che abbiamo scambiato per il presente.
In questo limbo, dove ogni giorno è uguale al precedente e l’unica cosa che cambia è l’ammontare del debito, fa la sua apparizione Dao. E chi, se non Tilda Swinton, poteva incarnare una figura così enigmatica e trascendente? Descriverla come una “spirito affine” è riduttivo. Dao è un’apparizione, un test di Rorschach vivente su cui Doyle proietta le sue ultime, flebili speranze. Swinton, con la sua bellezza androgina e la sua aura ultraterrena, la interpreta non come una classica femme fatale o un’angelica salvatrice, ma come qualcosa di intermedio e molto più perturbante. È anche lei un fantasma, un’esiliata? O è una manifestazione del Fato, un’emissaria di quel mondo invisibile che Doyle cerca disperatamente di decifrare attraverso le carte? La loro relazione non è costruita su dialoghi brillanti, ma su silenzi condivisi, su una comprensione reciproca che sembra precedere le parole. È un legame tra due anime alla deriva, che si riconoscono nell’abisso che le circonda. La chimica tra Farrell e Swinton è elettrica proprio perché non è convenzionale; è l’incontro di due solitudini che, per un istante, si rispecchiano l’una nell’altra.
La ballata di un piccolo giocatore trascende così i confini del noir o del film sul gioco d’azzardo per diventare una profonda meditazione esistenziale. Berger, con la stessa precisione quasi clinica con cui ha mostrato la deumanizzazione della guerra, qui mostra la deumanizzazione dell’individuo nel capitalismo terminale. I casinò di Macao, con la loro assenza di orologi e finestre, sono la metafora perfetta di un sistema che cancella il tempo, la storia e l’identità, sostituendoli con il ciclo perpetuo del consumo e del rischio. Doyle non sta solo perdendo denaro; sta perdendo la sua stessa sostanza, il suo passato che lo insegue come un creditore implacabile e un futuro che si è già giocato.
Il film, tuttavia, non è un esercizio di stile compiaciuto e freddo. C’è un’umanità dolente che pulsa sotto la superficie levigata delle immagini. La “ballata” del titolo suggerisce un racconto malinconico, una storia di perdita cantata a mezza voce. E mentre la trama si dipana, portando Doyle a confrontarsi con i demoni che credeva di essersi lasciato alle spalle, la domanda non è se riuscirà a vincere la mano finale, ma se riuscirà a trovare un modo per smettere di giocare. Per uscire dal casinò e affrontare la luce accecante e disordinata del mondo reale.
Forse il più grande merito di Berger è quello di resistere a ogni facile conclusione, a ogni catarsi consolatoria. Il destino di Doyle rimane ambiguo, sospeso come una carta coperta sul tavolo. La salvezza, se esiste, non è una vincita milionaria o una fuga romantica. È qualcosa di molto più piccolo, più fragile: un atto di gentilezza inaspettata, un momento di connessione umana, la possibilità, forse, di perdonarsi. La ballata di un piccolo giocatore è un’opera ipnotica e desolata, un requiem per un’anima persa nel riflesso infinito delle luci al neon. Un film che ci conferma come Edward Berger sia uno dei registi più interessanti del nostro tempo, capace di trovare l’universale nel particolare, e di mostrarci come, a volte, la partita più difficile non sia contro il banco, ma contro il vuoto che ci portiamo dentro.
Scheda Film
Voto:
Regista: Edward Berger
Cast: Colin Farrell, 陳法拉, Tilda Swinton, 葉德嫻, Alex Jennings
Sceneggiatura: Lawrence Osborne, Rowan Joffé
Data di uscita: 15 Ott 2025
Titolo originale: Ballad of a Small Player
Paese di produzione: Germany
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