Un’aula di tribunale eretta sulle ceneri fumanti di un continente, un tentativo disperato e necessario di imporre la logica del diritto sulla follia della barbarie: il processo ai crimini nazisti tenutosi a Norimberga da 20 novembre 1945 al 1 ottobre 1946. Per decenni, l’immaginario cinematografico di quell’evento è stato dominato da un monolito, un capolavoro torreggiante e umanista: Vincitori e Vinti (Judgment at Nuremberg) di Stanley Kramer del 1961. Un film-processo, un’orazione civile, un affresco morale talmente potente da sembrare definitivo. Come osare, dunque, tornare a Norimberga? Con quale sguardo, con quale nuova urgenza? James Vanderbilt, con il suo Nuremberg, risponde a questa sfida non tentando di eguagliare la scala epica di Kramer, ma capovolgendone la prospettiva. Se il film di Kramer era una sinfonia, quello di Vanderbilt è un quartetto da camera suonato in una cella di prigione. Un’opera claustrofobica e febbrile che sposta il focus dall’aula del tribunale alla stanza degli interrogatori, dalla colpa collettiva all’anatomia psicologica di un singolo mostro e dell’uomo che osò guardarlo negli occhi.
Il film di Vanderbilt non è un courtroom drama, ma un thriller psicologico mascherato da dramma storico. Il suo campo di battaglia non è il banco dei testimoni, ma la mente. Al centro della scena non ci sono avvocati e giudici, ma due uomini impegnati in una mortale partita a scacchi: da un lato Hermann Göring, il Reichsmarschall caduto, il secondo uomo del Reich, interpretato da un Russell Crowe mastodontico e agghiacciante; dall’altro, lo psichiatra dell’esercito americano Douglas Kelley, a cui Rami Malek presta il suo volto nevrotico e la sua intensità febbrile. La missione di Kelley è scientifica: determinare se gli imputati nazisti siano psicologicamente sani per affrontare il processo e, soprattutto, cercare di isolare il “virus nazista”, di trovare una patologia comune, una crepa nella loro psiche che possa spiegare l’inspiegabile. È l’approccio di un uomo del XX secolo, fiducioso negli strumenti della ragione e della psicanalisi, convinto che il male possa essere diagnosticato, classificato e, forse, compreso.
È qui che il film affonda le sue radici più profonde e inquietanti. Lo scontro tra Kelley e Göring diventa una perversa seduta di psicanalisi in cui è il mostro a tenere il lettino. Russell Crowe compie un lavoro straordinario nel sottrarre il suo Göring a ogni forma di caricatura. Il suo non è il demone grottesco della propaganda, ma un uomo di intelligenza affilata, di vanità smisurata, dotato di un carisma magnetico e velenoso. È un manipolatore supremo, un seduttore che gode nel demolire le certezze del suo esaminatore. Sfoggia la sua cultura, cita la storia, razionalizza l’orrore con una logica impeccabile e terrificante. Crowe non interpreta la banalità del male di cui parlerà Hannah Arendt; incarna la sua spaventosa, articolata normalità. Il suo Göring non è un burocrate grigio, ma un principe rinascimentale decaduto, pienamente consapevole delle sue azioni e assolutamente privo di rimorso. È un buco nero di narcisismo che minaccia di risucchiare la luce della ragione di Kelley.
Dall’altra parte, Rami Malek è perfetto nel ruolo dell’uomo di scienza che si perde nel labirinto. Il suo Kelley è un uomo teso, ambizioso, quasi arrogante nella sua fiducia nel metodo scientifico. Ma a ogni incontro con Göring, la sua postura professionale si sgretola. La sua curiosità si trasforma in ossessione, la sua ricerca della verità in una fascinazione morbosa. Malek eccelle nel mostrare questa erosione interiore attraverso il corpo: i suoi occhi si cerchiano, i suoi gesti si fanno più scattosi, la sua sicurezza vacilla. La dinamica tra i due attori ricorda quella tra Clarice Starling e Hannibal Lecter, ma spogliata di ogni elemento gotico e calata nel peso insostenibile della Storia reale. Kelley vuole trovare il germe della follia in Göring, e Göring, con diabolica lucidità, cerca di dimostrargli che il vero folle è chi crede che esista una netta linea di demarcazione tra normalità e mostruosità.
Questo duello psicologico è il cuore pulsante del film, ma la sua grandezza sta nel modo in cui Vanderbilt lo ancora al contesto. A differenza di Kramer, che ricostruì l’aula di tribunale e si concentrò sulla dialettica processuale, Vanderbilt usa il processo come una colonna sonora dell’orrore. Le testimonianze, i filmati dei campi di concentramento proiettati in aula, le prove schiaccianti dei crimini contro l’umanità non sono il centro della narrazione, ma filtrano nelle celle, riecheggiano nei corridoi, diventando la pressione atmosferica costante che schiaccia i personaggi. La regia di Vanderbilt è essenziale, quasi brutale. Predilige interni cupi, illuminati da una luce fredda che evoca più un obitorio che un palazzo di giustizia. La sua macchina da presa si sofferma sui volti, sui dettagli, creando un’intimità soffocante che rende la tensione quasi insopportabile. Il mondo esterno, la città di Norimberga in rovina, appare solo a sprazzi, come un promemoria spettrale delle conseguenze fisiche della follia che Kelley sta cercando di mappare.
È inevitabile, a questo punto, tornare a Vincitori e Vinti. Il film di Kramer era un’opera corale, un dibattito filosofico sulla responsabilità. Il suo protagonista, il giudice Dan Haywood interpretato da un magnifico Spencer Tracy, rappresentava la coscienza dell’Occidente, un uomo giusto che cercava una sentenza giusta. Il suo scopo era affermare un principio universale: la responsabilità è individuale. Il film si chiudeva su una nota di austera, ma incrollabile, fiducia nella Legge e nella capacità dell’uomo di giudicare. Nuremberg di Vanderbilt è la sua immagine speculare, il suo negativo oscuro. Non è un film sulla giustizia, ma sul contagio. Il suo protagonista non è un giudice, ma un medico che, nel tentativo di diagnosticare la malattia, finisce per esserne infettato. Il destino tragico di Douglas Kelley, che si suiciderà anni dopo, ossessionato dal suo “paziente”, è la vera sentenza del film. Una sentenza che non afferma un principio, ma pone una domanda terribile: si può studiare il male assoluto senza che una parte di esso ti contamini?
Questo cambio di paradigma riflette forse anche il cambiamento dei nostri tempi. L’opera di Kramer era figlia di un’epoca che, uscita dall’orrore, aveva un disperato bisogno di ristabilire certezze morali. Era un cinema che parlava alla collettività, che voleva insegnare una lezione. Il film di Vanderbilt è figlio di un’era più cinica e disillusa, un’era di individualismo e di fascinazione per la psicologia del crimine. Siamo diventati i voyeur dell’abisso. Non ci basta più condannare il mostro, vogliamo sederci con lui, ascoltarlo, capire la sua logica, anche a costo di rimanerne sedotti o distrutti.
Nuremberg sacrifica l’ampio respiro della Storia per la profondità soffocante della psiche. L’ottimo Michael Shannon, nel suo ruolo di supporto come procuratore capo Robert Jackson, incarna la frustrazione di un sistema legale che può condannare un uomo, ma non può penetrare il mistero della sua malvagità. Il film di Vanderbilt non cerca di sostituire o sminuire il capolavoro di Kramer; piuttosto, si pone come un suo agghiacciante e necessario post-scriptum. Vincitori e Vinti ci ha mostrato la condanna del male. Nuremberg ci mostra il prezzo che si paga per averlo guardato troppo da vicino. È un’opera potente e intelligente, che ci ricorda come, anche dopo che i tribunali hanno emesso le loro sentenze, la vera battaglia – quella contro l’oscurità che si annida nella natura umana – non finisce mai.
Scheda Film
Voto:
Regista: James Vanderbilt
Cast: Russell Crowe, Rami Malek, Leo Woodall, John Slattery, Mark O'Brien
Sceneggiatura: Jack El-Hai, James Vanderbilt
Data di uscita: 06 Nov 2025
Titolo originale: Nuremberg
Paese di produzione: United States of America
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