C’è un confine sottile, quasi impercettibile, tra la realtà bruta e la sua trasfigurazione cinematografica, un confine che Gianfranco Rosi ha esplorato e spesso oltrepassato in tutta la sua carriera. Dopo le rarefatte e quasi ieratiche immagini di Notturno, dove la guerra si faceva eco lontano e le ferite umane si trasformavano in paesaggi interiori, e dopo la “marcia indietro” documentaristica di In Viaggio su Papa Francesco, il regista torna con Sotto le Nuvole a un’indagine più viscerale, un’immersione quasi tellurica in un territorio che è mito, storia e, soprattutto, un organismo vivente: l’area vulcanica che abbraccia Napoli, dai Campi Flegrei a Torre Annunziata, sotto lo sguardo incombente del Vesuvio. Dimenticate il documentario nella sua accezione più canonica, Rosi è un archeologo dell’anima, un pittore di atmosfere che utilizza la macchina da presa come un sismografo per captare le vibrazioni profonde di un luogo e dei suoi abitanti.
Quello che Rosi ci offre è un viaggio ai margini del reale dove le nuvole di cui si parla nel titolo non sono solo quelle che si addensano sul cratere, ma anche quelle che avvolgono le esistenze, i destini, le speranze e le disperazioni di chi vive all’ombra di un gigante addormentato. Come diceva Jean Cocteau, citato in apertura dal regista stesso, il Vesuvio è “la fabbrica di tutte le nuvole del mondo”, e in queste nuvole si condensa la storia, la cultura, la religiosità e la maledizione di una terra in perenne bilico tra la vita e la morte.
La prima, e più evidente, scelta stilistica di Sotto le Nuvole è l’uso di un bianco e nero rigoroso, quasi caravaggesco. Non è un vezzo formale, né un’ossessione per il formalismo che pur aveva caratterizzato, in parte, il sublime Notturno. Qui il bianco e nero assume una funzione drammaturgica precisa. Spoglia i luoghi e i volti dalla loro immediatezza cromatica, li eleva a una dimensione archetipica, li rende universali. È come se Rosi volesse trascendere la realtà contingente per attingere a una verità più profonda, a un’essenza dei luoghi e delle persone. Il colore, in questo contesto, sarebbe stato una distrazione, un rumore di fondo che avrebbe inficiato la purezza dello sguardo. Pensiamo all’opera di fotografi come Robert Frank o Henri Cartier-Bresson, dove l’assenza di colore esalta la composizione, la luce, le espressioni dei volti, trasformando la fotografia in pittura. Rosi fa lo stesso col cinema: il Vesuvio non è solo una montagna, è un’idea, un’entità mitica che si staglia contro un cielo ora plumbeo, ora terso, ma sempre carico di presagi.
Le inquadrature, sempre estremamente consapevoli, rivelano una maniacale attenzione per la ricerca e l’osservazione sul campo. Tre anni passati alle pendici del Vesuvio non sono un dettaglio da poco: è un tempo biblico per un regista, un periodo di immersione totale che gli ha permesso di catturare l’anima di questi luoghi. Non è un cinema che giudica, ma che osserva, che si lascia permeare dalla quotidianità, dai riti, dalle anomalie. Rosi è un etnologo con la macchina da presa, che registra senza filtri, ma con una profonda sensibilità artistica.
È quasi impossibile non pensare a Roberto Rossellini e al suo Viaggio in Italia (1954) quando si parla di un film che indaga il rapporto tra lo straniero (o il regista-osservatore) e la realtà partenopea. Rossellini, con la sua inimitabile capacità di trascendere il neorealismo per toccare corde esistenziali, aveva già intuito la dimensione metafisica di questa terra. La domanda di Katherine Joyce (Ingrid Bergman) “Dove siamo? – Non te lo so dire” risuona ancora oggi, ed è una domanda che Rosi sembra implicitamente porre, o quantomeno suggerire. Non è solo una questione geografica, ma esistenziale. Dove siamo noi, esseri umani, di fronte alla potenza inarrestabile della natura e della storia?
Rosi rievoca Rossellini, ma lo fa con uno stile personale, senza mimesi. Se Rossellini era il maestro dell’improvvisazione e della cattura dell’attimo fuggente, Rosi è un artigiano della composizione, un cesellatore di immagini che costruisce il suo racconto per giustapposizione, per frammenti, per accostamenti inusuali. Il suo è un cinema “satellitare”, come giustamente si potrebbe definire, che “sfiora senza entrare”, ma che gira in orbita, intorno alla bocca della voragine, un po’ come faceva lungo gli anelli di Saturno del GRA – Grande Raccordo Anulare. Disegnando non una mappa topografica, ma un’ipotesi di mappa sotterranea di una città segreta, che sembra sorgere dal cuore stesso della Terra, un luogo dove il visibile e l’invisibile si fondono.
Il film ci conduce attraverso un mosaico di esistenze, ognuna un microcosmo che riflette la complessità dell’area vesuviana. Rosi si muove da una situazione all’altra con la fluidità di un racconto epico, senza un filo conduttore narrativo tradizionale, ma legando le vicende attraverso la presenza costante del vulcano e del suo respiro. Vediamo gli scavi meticolosi di un gruppo di archeologi giapponesi della Villa Augustea di Somma Vesuviana, un’immagine quasi beckettiana di una ricerca del passato che si svolge nel presente, sotto gli occhi di un futuro incerto. Sono custodi di memorie, scavatori di storie sommerse che il vulcano ha seppellito e conservato. Poi, il contrasto con il centro emergenze dei vigili del fuoco, figure eroiche e silenziose che si preparano a fronteggiare l’ineluttabile, la furia del gigante che ogni tanto si scuote. E ancora, le perlustrazioni dei carabinieri nei tunnel usati dai tombaroli, un’altra forma di archeologia criminale, dove il passato viene profanato per un illecito guadagno. È il lato oscuro, inestirpabile, di questa terra, dove la ricchezza della storia si scontra con la povertà e l’illegalità.
Ma non c’è solo dramma e oscurità. C’è la luce, la speranza, l’impegno quotidiano di chi resiste. Lo straordinario Titti, nel suo doposcuola per i ragazzi di quartiere, incarna la resilienza e l’inventiva di un popolo che non si arrende. È una figura quasi paterna, un faro in un mare di incertezze, che con la sua dedizione offre un’alternativa, una possibilità di futuro a chi è nato all’ombra di un destino già scritto. E infine, il film ci mostra i carichi di grano ucraino di una nave di siriani, un’immagine potente di un Mediterraneo che è ancora un crocevia di popoli e di merci, un luogo di scambio e di incontro, nonostante le tragedie e i conflitti. È un’immagine che dilata il campo, che connette il locale al globale, il passato al presente.
Sotto le Nuvole è un film meno astratto di Notturno, meno ossessionato dal formalismo in senso stretto, ma non per questo meno profondo. L’adesione immediata ai luoghi, ai volti, alle situazioni, alle storie, alle voci, è palpabile. Rosi è un regista che si fida della realtà, ma che la filtra attraverso la sua visione acuta e la sua estetica raffinata. Non è interessato a dare risposte, ma a porre domande. Cosa significa vivere sotto un vulcano attivo? Qual è il rapporto tra l’uomo e la natura, tra la storia e il destino? Come si può trovare la speranza in un luogo dove il pericolo è una costante, dove la bellezza si mescola alla devastazione?
Il suo cinema “satellitare”, che “gira in orbita intorno alla bocca della voragine”, è un atto di contemplazione, ma anche di provocazione. Disegnando l’ipotesi di una mappa sotterranea di una città segreta, che sembra sorgere dal cuore stesso della Terra, Rosi ci invita a guardare oltre la superficie, a sentire il respiro profondo di una terra che è madre e matrigna, genitrice e distruttrice. È un film che ci lascia con un senso di meraviglia e di inquietudine, con la consapevolezza che, sotto le nuvole del Vesuvio, si agita un’umanità complessa, resiliente, tragica e meravigliosa. E che il cinema, quello vero, ha ancora la capacità di svelarci queste verità scomode e affascinanti.
Scheda Film
Voto:
Regista: Gianfranco Rosi
Cast:
Sceneggiatura: Gianfranco Rosi
Data di uscita: 18 Set 2025
Titolo originale: Sotto le nuvole
Paese di produzione: Italy
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