Il ritmo incessante, una corsa contro il tempo e contro se stessi: The Long Walk, di Francis Lawrence, non è semplicemente un thriller distopico, ma un’opera che scava a fondo nell’animo umano, sottoponendolo a una prova di resistenza fisica e mentale che va ben oltre la semplice sopravvivenza. La sinossi ufficiale, quella asettica e priva di anima, lascia intendere solo una vaga idea della complessità del film, riducendolo a una gara di marcia letale. Ma la realtà è ben più sfaccettata, un’allegoria inquietante che riecheggia, in modo inaspettatamente sottile, le atmosfere claustrofobiche di Battle Royale mescolate alla desolazione esistenziale di un romanzo di Cormac McCarthy.
Cooper Hoffman, figlio d’arte – e si nota una certa eredità stilistica nel suo modo di interpretare il ruolo del protagonista, una specie di antieroe silenzioso e ossessivamente concentrato – ci guida in questo viaggio infernale, una lunga marcia a passo forzato che diventa metafora della spietata competizione sociale, un rito iniziatico perverso e crudele. Non ci sono eroi o cattivi nel senso tradizionale del termine, solo ragazzi spinti al limite, in balia di un sistema che li usa e li consuma. L’atmosfera opprimente, la fotografia grigia e desolata, contribuiscono a creare un senso di malessere costante, accentuato dalla musica, un sottofondo inquietante e minimalista che amplifica il senso di tensione e di isolamento. La camera, spesso inquadra i volti dei partecipanti da vicino, evidenziando la fatica, la disperazione, la lenta discesa nella follia. Questa scelta registica, lontana da spettacolarizzazioni gratuite, è di una potenza narrativa straordinaria, quasi brutale nella sua sincerità.
La mancanza di una vera e propria spiegazione del “perché” di questa marcia annuale, di questa macabra tradizione, accresce il senso di disagio e di mistero. Il film non ci offre risposte facili, non ci fornisce un manuale di istruzioni per decifrare il sistema distopico in cui i ragazzi sono intrappolati. Questa omissione, a prima vista, potrebbe apparire come una lacuna narrativa, ma a una riflessione più attenta si rivela un’arma a doppio taglio: l’ambiguità ci costringe a interrogarci sul nostro stesso ruolo di spettatori, sulla nostra capacità di giudicare e interpretare un’azione così profondamente aberrante. Siamo spettatori passivi di uno spettacolo crudele, o partecipi inconsapevoli di un meccanismo più vasto?
Si pensi, a titolo di esempio, alla letteratura post-apocalittica, o, meglio, a quel filone di fantascienza che descrive società ridotte al minimo, dove la sopravvivenza è una lotta costante e spietata. *The Long Walk*, in questo contesto, si colloca in una posizione di grande interesse proprio perché non offre un’apocalisse spettacolare, con guerre atomiche o mutazioni genetiche mostruose. La distopia è più subdola, insidiosa, rappresentata da una routine quotidiana, una normalità orribile che si cela dietro il velo della tradizione. L’orrore non risiede nel fantastico, ma nel familiare, nel quotidiano. Il film, in tal senso, è un esempio di come il perturbante possa annidarsi nel banale, nello scontato, nell’accettabile.
Il cast, soprattutto nella sua composizione di giovani attori, è un punto di forza indiscutibile. La performance di Cooper Hoffman è contenuta, ma carica di una potenza espressiva che parla più attraverso sguardi e gesti che con dialoghi espliciti. I suoi silenzi sono eloquenti, i suoi occhi riflettono la lotta interiore tra la volontà di sopravvivere e la crescente consapevolezza dell’assurdità della situazione. Gli altri personaggi, benché meno approfonditi, contribuiscono a creare un coro di disperazione e determinazione. La dinamica di gruppo, la solidarietà e il tradimento che si alternano, sono un ulteriore elemento che arricchisce la complessità del film, creando un vero e proprio microcosmo sociale in miniatura, un ritratto inquietante dell’umanità sotto pressione.
L’analisi potrebbe poi proseguire considerando l’aspetto meta-narrativo, il modo in cui il film stesso riflette sul processo di narrazione e sulla manipolazione della realtà. La marcia è una rappresentazione teatrale, un’opera di finzione che però ha conseguenze reali e devastanti. Lo spettatore, come i partecipanti alla marcia, è costretto a guardare e a subire la violenza della narrazione, senza la possibilità di intervenire, di cambiare il corso degli eventi.
Ricordiamo poi l’interessante contrasto tra la natura apparentemente semplice della trama – una gara di corsa – e la complessità degli aspetti psicologici ed etici esplorati nel film. L’apparente semplicità nasconde una ricchezza di significati molto più ampia, aprendo a svariate interpretazioni, da letture psicologiche a chiavi socio-politiche, passando attraverso riflessioni sul concetto di libertà individuale e sul potere del sistema. Ogni passo avanti, ogni metro percorso, diventa una metafora della vita stessa, una lotta continua per sopravvivere, per trovare un significato, anche se ciò significa rinunciare alla propria umanità.
Siamo dunque dinanzi ad un’opera visivamente potente e complessa che richiede attenzione, riflessione e un certo grado di partecipazione emotiva da parte dello spettatore. È un’esperienza cinematografica che, pur nella sua crudezza e nella sua disperazione, lascia un segno profondo e duraturo, un inquietante eco nella mente che, a giorni dalla visione, continua a martellare, a passo forzato, come un tamburo che batte il ritmo incessante del tempo che scorre. Un tempo, in questo film, che è un esecutore implacabile, e un testimone silenzioso di una tragedia umana che potrebbe trovarsi più vicina alla nostra realtà di quanto vorremmo credere.
Scheda Film
Voto:
Regista: Francis Lawrence
Cast: Cooper Hoffman, David Jonsson, Garrett Wareing, Tut Nyuot, Charlie Plummer
Sceneggiatura: JT Mollner, Stephen King
Data di uscita: 10 Set 2025
Titolo originale: The Long Walk
Paese di produzione: United States of America
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