Il primo suono non è un’esplosione, ma un sussurro. È il frusciare anomalo del vento tra le conifere della Sierra Nevada, un vento caldo e secco, un messaggero di sventura che porta con sé l’odore acre della cenere. Poi, l’orizzonte si tinge di un arancione malato, innaturale, come se il sole sorgesse da ogni punto cardinale contemporaneamente. Inizia così, con un’immersione sensoriale totale e asfissiante, The Lost Bus, l’ultima fatica di Paul Greengrass, un regista che ha eletto il caos a cifra stilistica e l’analisi dei sistemi in collasso a vocazione artistica. Non c’è da stupirsi che la sua traiettoria, dopo averci scaraventato dentro il volo United 93, sulle strade insanguinate di Derry in Bloody Sunday e tra le onde infestate dai pirati somali in Captain Phillips, sia approdata qui, nel cuore dell’incendio di Camp Fire che nel 2018 ha cancellato la cittadina di Paradise, California, trasformando un idillio bucolico in un inferno dantesco. Greengrass è il cantore ultimo delle tragedie del nostro secolo, un cronista che non si accontenta di raccontare l’evento, ma sente il bisogno viscerale di afferrare lo spettatore per il bavero e trascinarlo al suo interno.
Il suo cinema, un’estetica della crisi permanente, trova nel Camp Fire un soggetto quasi paradigmatico. E il suo approccio, il famigerato “shaky-cam” che ha generato tanti ammiratori quanti detrattori, qui trascende la mera scelta stilistica per diventare un vero e proprio assunto etico. La camera a mano di Greengrass, nervosa, instabile, costantemente alla ricerca di un fuoco che non è solo quello delle fiamme ma quello del dramma umano, non è un vezzo autoriale. È la traduzione visiva dell’incertezza, della disintegrazione di ogni punto di riferimento. In The Lost Bus, la realtà non è un’immagine chiara e stabile da contemplare a distanza di sicurezza; è un flusso di frammenti percettivi, un bombardamento di stimoli sensoriali che replicano la confusione e il panico di chi ha vissuto quel giorno. La scelta di Greengrass è radicale: rifiuta la spettacolarizzazione pornografica del disastro, tipica di un certo cinema hollywoodiano à la Roland Emmerich, per abbracciare un realismo immersivo che confina con l’intollerabile, un’azione mai fine a se stessa come quella di Sam Peckinpah, per citare un grande Maestro che ha costruito capolavori seminali in questo ambito. Non ci sono campi lunghi e maestosi che mostrano la grandiosità della distruzione; ci sono solo i dettagli claustrofobici visti dall’interno di un abitacolo, i primi piani sudati, i vetri anneriti dal fumo, la visibilità ridotta a pochi metri di apocalisse.
Al centro di questo caos calcolato, come un’arca di Noè in fuga da un diluvio di fuoco, c’è lo scuolabus del titolo. Alla guida, un Matthew McConaughey che si spoglia di ogni aura divistica per incarnare Kevin McKay, l’autista che nella realtà salvò 22 studenti. La sua non è la performance di un eroe, ma quella di un uomo comune, un everyman costretto dalle circostanze a superare i propri limiti. McConaughey lavora in sottrazione, affidando il suo personaggio non a dialoghi memorabili ma a una fisicità stremata, alla tensione dei muscoli del collo mentre scruta una strada che non esiste più, al sudore che gli imperla la fronte, al tremore controllato delle mani sul volante. Il suo corpo diventa il sismografo della tragedia. L’autobus, stipato di bambini terrorizzati e di una giovane insegnante (interpretata da una bravissima e intensa America Ferrera, che funge da bussola emotiva del racconto), diventa un microcosmo, un campione rappresentativo dell’intera comunità di Paradise. Dentro quel guscio di metallo giallo si consuma un dramma che è al contempo epico e intimista: la lotta per la sopravvivenza, la paura ancestrale del buio e del fuoco, la necessità di mantenere un barlume di speranza e di autorità quando ogni struttura sociale esterna è letteralmente andata in fumo. Greengrass gestisce questo spazio angusto con una maestria che ricorda il cinema bellico di Samuel Fuller, trasformando il bus in un sottomarino immerso non nell’acqua, ma in un oceano di fiamme.
Ma The Lost Bus non è solo un survival movie. Come nel suo capolavoro United 93, Greengrass allarga costantemente il campo per mostrarci il corollario della tragedia individuale: il fallimento sistemico. La narrazione si biforca e si frammenta, alternando con un montaggio frenetico e impietoso le vicende disperate dell’autobus a quelle, non meno drammatiche, che si consumano nelle centrali operative del 911, negli uffici dello sceriffo, tra i vigili del fuoco sopraffatti da un fronte di fiamma che avanza alla velocità di un campo da football al secondo. In queste sequenze, dove compaiono funzionari e tecnici interpretati da solidi caratteristi come Yul Vazquez, il film si trasforma in un formidabile procedural, una disamina quasi giornalistica delle cause che hanno portato al disastro. Si parla di linee elettriche obsolete e mai manutenute dalla compagnia PG&E, di piani di evacuazione inadeguati per una cittadina con poche vie di fuga, di una sottovalutazione cronica del rischio in un’era di cambiamenti climatici che hanno reso questi “megafire” la nuova, terrificante normalità. Il film, in questo, ricorda la precisione analitica della serie Chernobyl di Craig Mazin: entrambi dimostrano come le più grandi catastrofi non nascano da un singolo errore, ma da una cascata di piccole negligenze, decisioni burocratiche miopi e un’arroganza sistemica che si sgretola di fronte alla furia della natura.
L’estetica del film è una deliberata negazione della bellezza. Il direttore della fotografia Barry Ackroyd, sodale di lunga data di Greengrass, non cerca la composizione pittorica o l’inquadratura memorabile. La sua è una fotografia “sporca”, funzionale, che privilegia la grana, la sottoesposizione, l’effetto quasi documentaristico. Le fiamme non sono le lingue di fuoco affascinanti e terribili di un quadro di Turner; sono un muro arancione e indistinto che cancella ogni cosa, una pura entropia visiva. Il sonoro è forse l’elemento tecnicamente più impressionante: un sound design che ci avvolge e ci soffoca, mescolando il rombo del fuoco – un suono basso, costante, quasi un’entità viva – con il crepitio degli alberi che esplodono, le sirene lontane, le comunicazioni radio distorte e i pianti soffocati dei bambini all’interno del bus. È un’esperienza uditiva che genera un’ansia quasi fisica, un’opera di terrorismo sensoriale finalizzata a uno scopo più alto: farci comprendere, a livello epidermico, cosa significa essere intrappolati in una situazione senza via d’uscita.
The Lost Bus è un film difficile, a tratti estenuante, che non concede tregua né consolazione. Non è un’opera che si ama, ma che si subisce, e la sua grandezza risiede proprio in questa onestà brutale. Greengrass non ci offre un finale catartico in cui i buoni vengono premiati e le colpe punite. Ci lascia, invece, con l’immagine di una comunità distrutta e con la consapevolezza agghiacciante che Paradise non è un’eccezione, ma un sinistro presagio. In un’epoca che verrà definita dall’emergenza climatica, il film trascende la cronaca e diventa un documento fondamentale, un monito potentissimo. Riformula le regole del genere catastrofico per un mondo in cui la catastrofe non è più un evento eccezionale da cui fuggire al cinema, ma una condizione latente della nostra esistenza. L’autobus perduto di Greengrass, alla fine, siamo noi: una collettività che avanza a tentoni nel fumo, guidata da persone comuni che cercano disperatamente una strada sicura, mentre fuori il mondo, per come lo conoscevamo, sta bruciando. Visione consigliata.
Scheda Film
Voto:
Regista: Paul Greengrass
Cast: Matthew McConaughey, America Ferrera, Yul Vazquez, Ashlie Atkinson, Spencer Watson
Sceneggiatura: Brad Ingelsby, Lizzie Johnson, Paul Greengrass
Data di uscita: 19 Set 2025
Titolo originale: The Lost Bus
Paese di produzione: United States of America
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