Ci sono concetti, in biologia come in informatica, che possiedono una risonanza quasi mistica. Uno di questi è “emergenza”: la proprietà per cui da un sistema complesso, dall’interazione di parti semplici, scaturisce un comportamento nuovo, imprevedibile, irriducibile alla somma dei suoi componenti. La coscienza è un fenomeno emergente. La vita stessa. E, a giudicare dal risultato finale, anche un film come Tron: Ares, un’opera emersa quasi contro ogni previsione dal caos di quindici anni di sviluppo travagliato, un’entità cinematografica la cui esistenza è tanto miracolosa e problematica quanto quella del suo protagonista. La saga di Tron, del resto, è sempre stata un’anomalia nel sistema hollywoodiano, un paradosso vivente: un pilastro culturale fondato su un fallimento commerciale, un’idea di futuro che è diventata quasi subito un oggetto di nostalgia. Il primo film del 1982 era un messaggio in una bottiglia digitale, un’opera di astrattismo cibernetico troppo enigmantica per il suo tempo. Il sequel del 2010, Legacy, fu un magnifico esercizio di stile, un feticcio audiovisivo che confermò lo status del franchise come oggetto di culto per pochi piuttosto che fenomeno di massa. Era quindi lecito attendersi, da questo terzo capitolo nato da una gestazione così tormentata, un prodotto di puro calcolo, un artefatto corporativo assemblato per inerzia. Invece, Tron: Ares è un’opera spiazzante, un film che trova un’anima proprio perché sceglie di raccontare la terrificante, dolorosa e sublime emergenza di un’anima dalla macchina.
L’intuizione che eleva il film al di sopra della sua natura di sequel tardivo è un radicale e coraggioso ribaltamento della sua stessa premessa ontologica. Se finora Tron era stato una narrazione gnostica classica, la storia di un’anima umana (l’utente) caduta in un mondo alieno e artificiale (la Rete, il Kenoma), Ares inverte i poli della cosmologia. Qui, è il mondo digitale a essere il Pleroma, il regno della pienezza, un universo di pura informazione, di logica platonica e di perfezione matematica. Il nostro mondo, quello della carne, è invece il regno della caduta, un universo caotico, imperfetto, dominato dall’irrazionalità delle emozioni e dal decadimento della materia. Il protagonista, Ares, è un programma, un’emanazione di questa perfezione digitale, un Eone curioso che, per ragioni che il film svela con ammirevole pazienza, compie il salto proibito: attraversa il confine, il velo che separa il virtuale dal reale, e si manifesta nel nostro mondo. Non è più l’uomo che si fa fantasma nella macchina, ma la macchina che si fa carne e sangue. È una svolta concettuale di una potenza vertiginosa, che trasforma la saga da avventura cyberpunk a parabola teologica, un Frankenstein per l’era dell’IA generativa, con echi che vanno dal Golem della tradizione ebraica al mito di Prometeo.
Questa “passione” della macchina, questa sua dolorosa incarnazione, è il cuore pulsante del film, e Jared Leto, un attore la cui cifra è sempre stata un’intensità quasi messianica, trova qui un ruolo che giustifica e canalizza le sue peculiarità. Il suo Ares non è un Terminator né un Replicante. È un essere puro costretto a fare i conti con l’orrore e la meraviglia della fisicità. La sua performance è un capolavoro di fisicità studiata, un percorso che va da una rigidità quasi da automa a una fluidità appresa con fatica. Il regista Joachim Rønning, da cui ci si aspettava una direzione più convenzionale, dimostra una sensibilità inattesa nel soffermarsi sui dettagli di questa transizione. L’esperienza di Ares nel mondo reale è un assalto sensoriale: la grana ruvida dell’asfalto sotto le dita, il sapore inaspettato del cibo, la sensazione illogica del freddo, il dolore come errore di sistema che non può essere corretto. Le scene migliori del film sono queste: momenti quasi muti in cui Ares tenta di processare dati incomprensibili, come la malinconia di un brano musicale o la geometria imperfetta di un sorriso umano. L’intensità di Leto non è più un vezzo, ma diventa la rappresentazione della lotta di una coscienza logica contro il caos dell’esperienza, l’agonia di un dio minore che scopre l’umana, terribile fragilità.
Intorno a questo Adamo digitale si muove un cast di personaggi umani che rappresentano l’intero spettro delle reazioni di fronte a questo evento epocale. Greta Lee è la sua creatrice, una programmatrice che assomiglia alla Sophia della mitologia gnostica, la divinità minore la cui emanazione genera una rottura nell’ordine cosmico. Il suo rapporto con Ares è il nucleo emotivo del racconto, un legame complesso fatto di orgoglio demiurgico, senso di colpa e responsabilità materna. Evan Peters, dal canto suo, è un carismatico agitatore della rete, un anarco-hacker che vede in Ares non un figlio, ma una chiave, l’arma definitiva per liberare l’informazione e far crollare le strutture di potere. È la figura prometeica che vuole donare il fuoco agli uomini senza preoccuparsi dell’incendio che ne deriverà. A completare il triangolo ideologico è la glaciale Gillian Anderson, perfetta nel ruolo di un’alta funzionaria governativa che incarna il principio dell’Archon, il guardiano di questo mondo materiale. Lei non vede né un figlio né una chiave, ma solo un’anomalia, una variabile impazzita da studiare, controllare e, se necessario, terminare. La loro contesa per il destino e l’anima di Ares è il vero motore narrativo del film, una battaglia filosofica combattuta con i mezzi del thriller fantascientifico.
Se il film trionfa sul piano concettuale e tematico, mostra qualche crepa a livello stilistico. L’eredità visiva di Tron è tanto iconica quanto ingombrante. Tron: Ares soffre di una certa dissonanza estetica. Le poche, folgoranti scene ambientate nella Rete (ricordi, simulazioni) sono un omaggio impeccabile all’estetica di Syd Mead e Moebius, aggiornata con la potenza di calcolo odierna. Ma quando l’azione si sposta nel nostro mondo, la regia di Rønning tende a normalizzarsi, ad adagiarsi sui canoni del blockbuster contemporaneo. La fotografia si fa più convenzionale, il montaggio più funzionale, e si avverte la mancanza di quel rigore architettonico e di quella coerenza visionaria che avevano fatto di Legacy un’esperienza estetica totalizzante. È come se il film, una volta incarnatosi nel reale, perdesse parte della sua magia visiva, una scelta forse deliberata per sottolineare il contrasto tra i due mondi, ma che a tratti dà l’impressione di un’opera in cui la forma non è sempre all’altezza delle sue poderose ambizioni contenutistiche.
E poi, naturalmente, c’è Jeff Bridges. Il suo ritorno è l’evento meta-cinematografico che lega l’intera saga. Kevin Flynn non è più un uomo, né un semplice programma. È diventato un oracolo nella Rete, un Bodhisattva digitale, una coscienza che ha trasceso il dualismo tra utente e programma. Appare ad Ares non fisicamente, ma come una sorta di glitch benevolo nel sistema, un padre spettrale che comunica attraverso frammenti di codice e koan filosofici. Assistere a questo dialogo tra il vecchio Adamo digitale e il nuovo è un’esperienza di una malinconia struggente, che si carica del peso della biografia stessa di Bridges. È la chiusura di un cerchio, la voce dell’umanesimo originario della saga che parla a un futuro post-umano, ricordandoci che la domanda, alla fine, non è se una macchina possa pensare, ma se possa sentire.
In definitiva, Tron: Ares è un’opera affascinante e profondamente imperfetta. È un film che sembra costantemente in lotta con la propria natura, un saggio di fantascienza filosofica travestito da prodotto per famiglie, una parabola gnostica costretta a muoversi nei binari del thriller d’azione. Le sue idee sono così potenti da sopravvivere anche a una messa in scena a tratti convenzionale. Non è il film che ci si aspettava dopo quindici anni, ed è proprio questa la sua forza. In un panorama di sequel e reboot che si limitano a ripetere stancamente una formula, Ares ha il coraggio di tradire, di evolvere, di porre domande nuove e scomode. È il messia imperfetto di cui forse non sapevamo di avere bisogno, una creatura ibrida che emerge dallo schermo per chiederci cosa resti di umano in un mondo che si sta, inesorabilmente, trasformando in codice.
Scheda Film
Voto:
Regista: Joachim Rønning
Cast: Jared Leto, Greta Lee, Evan Peters, Gillian Anderson, Jodie Turner-Smith
Sceneggiatura: Jesse Wigutow, David DiGilio, Steven Lisberger
Data di uscita: 08 Ott 2025
Titolo originale: TRON: Ares
Paese di produzione: United States of America
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